Salambò di Flaubert e l'eros (totale) della letteratura

Nel 1862, esattamente 155 anni fa, veniva pubblicato il romanzo storico dello scrittore francese ambientato nella Cartagine del III secolo avanti Cristo che ha affascinato intere generazioni

Salambò di Flaubert e l'eros (totale) della letteratura

Se ne può scrivere solo con l’odio innamorato dell’amante lasciato nel talamo fumante. Quando si chiude l’ultima pagina, l’ultima riga, l’ultima solenne e fatale parola si sprofonda nella disperazione dell’abbandono. Veramente vuoi già andartene per sempre, maledetta Salambò?

Gustave Flaubert è genio assoluto e a distanza di oltre un secolo e mezzo dalla sua prima apparizione, Salambò non risente del tempo. È quello che fanno i classici. In Salambò, romanzo storico ambientato nella Cartagine del III secolo avanti Cristo, al tempo della rivolta dei mercenari, c’è l’anthropos, tutto e senza censure, declinato nella chiave di lettura eterna dell’eros.

L’eros di Cartagine trasuda da ogni pagina, che profuma di sicomori e di sudore. La penna di Flaubert restituisce la sua feroce lussuria all’Africa antichissima, liberando profumi, colori e odori che solo nei classici della latinità o della grecità si possono cogliere.

L’eros dei mercenari, affamati, violenti per l’inganno dei furbastri del potere, e poi disperati, gocciola via come una rugiada di sangue. L’eros infame del sacerdote eunuco Schahabarim è un inno alla tragedia dell’incompiuto; quello dissoluto di Annone che mangia lingue di fenicottero è lebbra e corruzione, l’eros di Amilcare Barca, che di Salambò è padre, aspira a possedere tutta una città, è totale.

L’eros nell’ambizione, quello che disinibisce e anima Spendio e Narr’havas. L’uno, Scapino in armi. L’altro un nobile principe numida. Il primo ricottaro (nel senso di pappone, magnaccia) e il secondo erede di un gran regno che dà in olocausto alle sue personalissime aspirazione di gloria. Uguali e uniti da un ego smisurato, al punto da giustificarsi nel tradimento.

E sempre sotto il vessillo dell’eros, stavolta antichissimo, ancestrale, si svolge la storia tra i due grandi protagonisti del romanzo storico di Flaubert. Eros che si intreccia a quello misterico e tabù degli dèi.

Matho, eroico fino all’annullamento di sé, scippa il velo sacro alla dea Tanit, cui Salambò è più devota che alla sua stessa vita. Matho splendente e potente come un Moloch, eppure debole come un uomo divorato dalla passione, possiede quello che Omero avrebbe chiamato (con termine difficilmente traducibile in italiano) il geras. Si fa, in pratica, semidio.

Salambò, incarnazione della dea Tanit è costretta ad amarlo d’amore proibito e intimo. Si credeva una divinità, scopre che Matho la domina senza neppur torcerle un capello. La condanna a scendere dalla Luna. Quell’amore che la domina e la affascina, si fa assassino, reclama il sangue. Da vergine casta diventa una regina cattiva, come quelle delle fiabe.

Eros infatti è compagno di Thanatos, non di altri. Perciò Salambò reclama il sacrificio di Matho, è per questo che in meno di trecento pagine muoiono decine di migliaia di uomini e donne, dilaniate dalle passioni, dalla rabbia, dagli elefanti, dalle malattie, dalla fame, dall’assedio, dalla pietas fraintesa. In questa chiave, il sacrificio di Cartagine è puro erotismo.

Una figura sola pare lontanissima, eppure gigantesca. È quella del piccolo Annibale, nascosto dal padre Amilcare lontano dalla corruzione di quella Patria che ha imparato ad amare solo standoci lontano. Il profilo eroico del condottiero bambino sovrasta persino quello del padre. È un presagio, un prodigio. Di grandezza e riscatto.

Flaubert, che c’ha messo dieci anni solo per rifinirlo, ha scritto quello che forse è l’ultimo capolavoro autenticamente grecoromano.

Fu pubblicato per la prima volta giusto centocinquantacinque anni fa, nel 1862. E va assolutamente riletto, oggi più che mai nell’epoca in cui l’Europa, per ragioni di bassissima bottega, disconosce sé stessa e rinnega la sua anima.

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