Lui si definisce un «Acca-fan» (crasi molto moderna tra un accademico e il fan di qualcosa). Lo fa perché crede che le comunità di cultori di generi pop siano le nostre vere centrali di produzione culturale. Ma per molti è semplicemente il vero guru della sociologia dei media. Stiamo parlando di Henry Jenkins, famoso per aver scritto alcuni dei saggi più importanti (Cultura convergente; Fan, blogger e videogamers; Culture partecipative e competenze digitali...) per capire la Rete e la cultura che la genera. Ed ora questo cervellone della University of Southern California è arrivato a Milano per parlare al seminario internazionale promosso dalla Triennale di Milano Media/City: New spaces, new aesthetics a cura di Francesco Casetti, professore di cinema e media alla Yale University che si conclude dopodomani. Ne abbiamo approfittato per fare due chiacchiere con lui mentre, di ritorno da una visita a Damanhur (una comunità eco-utopica sviluppatasi in Piemonte negli anni Settanta) pranzava in Triennale, a caccia di qualcosa di molto italiano da mettere sotto i denti, lui così americano, con la camicia fantasia e le bretelle colorate...
Professor Jenkins, lei è qui per parlare di come si ristrutturano le società attorno ai nuovi media... Siamo tutti un po’ più isolati, con la testa sempre china sullo schermo di un tablet?
«Ovviamente certe tecnologie possono creare una sorta di isolamento. Ma creano anche un nuovo tipo di connessione. Io qui racconto appunto di tutta una serie di network che sono nati nelle città americane e che creano comunità. Un grosso lavoro in questo senso lo ha fatto il MIT’s center of civic media di Boston. Si possono creare reti in cui i cittadini discutono di politica, per sfruttare i percorsi ciclabili e le bici... Per quasi tutto».
Però non è solo una questione di tecnologia. Non è immediato usare i nuovi media in questo modo socialmente virtuoso...
«No infatti. Non è solo questione di tecnologia, è una questione di acquisizione di capacità nell’usarla. Non parlo del fatto di essere capaci di pigiare dei tasti o di saper usare questo o quel programma. Parlo di una coscienza nuova, del fatto che ormai esistono conoscenze condivise, che esiste una capacità di far circolare informazioni importanti e che esiste un modo corretto di farne parte. A esempio molte scuole americane hanno vietato agli studenti l’utilizzo di molti di questi nuovi strumenti di comunicazione, come YouTube o i social network. Invece le persone vanno educate al loro utilizzo».
Nel suo nuovo libro non ancora tradotto in Italia lei infatti parla di spalmabilità dei contenuti. Il discorso è collegato?
«Sì, si parla sempre di circolazione dei contenuti, ma più che altro i contenuti si spalmano, si modellano, cambiano mentre vengono maneggiati dagli individui. Però i temi di cui si discute di più sono o il fatto che bisogna controllare la Rete oppure il fatto che la Rete è incontrollabile perché virale. Non è vera nessuna delle due cose. Quello che bisogna capire è come, dove e perché ciò che è globale assume una determinata forma».
Però in questo «nuovo mondo» di contenuti condivisi esiste un problema enorme quello del copyright. Se non si creano utili muore anche la creazione di cultura.
«È una grande battaglia e di certo ci troviamo in un momento di equilibrio molto instabile. In qualche maniera deve crearsi un nuovo tipo di contratto sociale che garantisca chi produce contenuti. Non è nemmeno detto che le grandi Corporation alla lunga debbano perderci. Il vero problema non è che qualcuno legga, mettiamo un libro, di “sfroso”. Il problema è che il libro te lo riscrivono. Questa circolarità non va fermata, bisogna saperla sfruttare. Chi sa moltiplicare, ma soprattutto far moltiplicare, i contenuti attorno al proprio prodotto economico incassa. Mi viene a esempio in mente il recente lancio del film Iron Sky. Un successo nato dalla creazione di una rete di fan prima ancora che il film fosse pronto per essere distribuito. Certo, perché questo funzioni serve un mercato veramente libero. In Europa con i mercati nazionali più ristretti la cosa potrebbe essere più complessa. Meno facile la creazione di questo volano».
Abbiamo parlato di fan. Quanto contano nella creazione della cultura contemporanea?
«Moltissimo. Il modello della fanzine nato nell’ambito della fantascienza si è allargato a quasi tutto, ed è diventato dominante con la Rete».
Esiste una creatività del copia e incolla?
«Sì. Certo non è quella di chi piglia un pezzo altrui e lo copia, punto e stop.
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