N ellaria il profumo di un rito pagano sempre uguale ma sempre perversamente diverso, di quella perversione sanguigna e sacrale che soltanto il rock sa emanare. Atmosfera caliente (e non per la temperatura), biglietti esauriti da mesi, stasera tutti sul prato e sulle tribune di San Siro per rivedere Bruce Springsteen insieme alla «E Street band» (lo show inizia con mezzora danticipo, alle 20.30, per rispettare lordinanza che impone di fermare la musica alle 23.30 esatte). Il Boss ormai viene spesso a Milano; ha portato la magnifica saga folk-acustica della Seeger Band, è poi tornato lo scorso novembre al Forum per una serata di rock incendiario (arrivando in scena su una specie di carrettino siciliano) e ora è di nuovo qui con la sua arte popolare e lo spirito battagliero che fonde cuore folk e anima rock, o ancora lo Steinbeck delle notti alcooliche e il Woody Guthrie più pungente. «Descrivo persone che lottano contro un mondo che le accerchia, magari consumate ma non vinte», spiega il Boss.
Bruce è un bardo moderno che sa tirare stilettate ma anche parlare damore e di sentimenti. «Nato per correre», dopo aver macinato chilometri ed anni di rock riesce ancora a dribblare lo spettro della ripetizione e della simulazione teatrale. Il suo spettacolo lo vive, lo suda, consuma in quasi tre ore di emozioni forti dove ormai cè spazio per un canzoniere infinito che passa dai recenti Radio Nowhere e Last To Die (col ritornello amaro che tuona: «Chi sarà lultimo a morire per uno sbaglio? Il sangue di chi sgorgherà, quale cuore verrà fermato? Cara, andranno re e tiranni incontro allo stesso destino, impiccati ai cancelli della tua città?») passando per The Rising, Badlands, Workin On the Highway, Glory Days, Nowhere Land, The Ghost of Tom Joad, Born In the Usa (che segnò il suo trionfo commerciale e la sua solitudine ), Nebraska, lamore e la paura di Tunnel Of Love fino alla Born to Run che lo presentò al mondo(spinto da un fenomenale battage pubblicitario, dopo alcune false partenze) il 25 agosto 1975, quando i critici preconizzarono: «È nato il nuovo Dylan». Difficile prevedere la scaletta di Springsteen che ogni tanto cambia marcia e canzoni a seconda dellestro del momento, chè lui per i fan è e sarà sempre un re nudo, nudo fino a mostrare lanima e i pensieri.
Per il resto (e chi lo vorrebbe cambiare?) Springsteen; voce ora sorniona ora narrativa, ora roca ed ora sfilacciata nel racconto, sostenuta dalla sua aggressiva chitarra ritmica e da quelle pungenti di Nils Lofgren e Little Steven, che fanno del rock e della routine unarte. Al suo fianco i soliti fedeli amici - da Roy Bittan alle tastiere a Clarence Clemons al sax passando per la moglie Patti Scialfa alla voce e a Charlie Giordano, che sostituisce Danny Federici, purtroppo scomparso pochi mesi fa - imprescindibili nel creare quel suono a cavallo tra rock, ballata, sfumature blues, accenti soul: insomma un suono stradaiolo e americano al cento per cento, perché la sua America soffre ma non muore mai. Così il suo è comunque un rock ecumenico; non è la tradizione ma è figlio legittimo dei suoni tradizionali inglobati nel suo rock da battaglia. «Ciò che scrivi deve arrivare dal profondo di te, poco importa labito che dài ad una canzone», è il suo motto.
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