RomaSi può dire che sia lincerto di un mestiere per il quale già nellOttocento si diceva: «Calunniate calunniate qualcosa resterà». Però nel caso specifico, considerato il tipo di specializzazione scelta dal personaggio, non è la prima volta e di certo non resterà lultima. Perché talvolta (non sempre, in verità) i nodi vengono al pettine e qualcuno censura il Censore.
Limplacabile accusatore che ha fatto di Silvio Berlusconi la propria ragione di vita, costruendoci la carriera con arguzia e metodo, finirà alla sbarra per la decima volta. Sempre con la medesima accusa: diffamazione a mezzo stampa. Un tale identikit non può che portare, lavete capito, a Marco Travaglio, un nome una garanzia. Il vicedirettore del Fatto quotidiano ieri è stato rinviato a giudizio anche dal tribunale di Bergamo per alcuni passaggi del suo libro «Papi, uno scandalo politico», edito da Chiarelettere (che stampa, appunto, a Bergamo). Assieme a Travaglio, finiranno sul banco degli accusati i coautori del pregevole volumetto: Peter Gomez, Marco Lillo e Claudio Pappaianni. In particolare, i quattro dovranno rispondere per alcune frasi su Lucia e Domenico Rossini, definiti rispettivamente «donna donore legata a un clan malavitoso barese» e «spacciatore di droga e pusher di fiducia di Gianpaolo Tarantini». La prima udienza è stata fissata per il 16 dicembre.
Lultima condanna comminata a Travaglio risale allottobre scorso, quando il tribunale di Marsala decise di punirlo con 15mila euro per aver dato del «figlioccio di un boss» allassessore regionale siciliano David Costa (arrestato con laccusa di concorso esterno in associazione mafiosa e successivamente assolto in forma definitiva).
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