Dai vescovi un altolà sull’eutanasia: «Nessuno è padrone dell’esistenza»

Secco richiamo anche sull’accanimento terapeutico: «Si affievolisce il senso della vita, l’uomo non accetta di misurarsi con la morte»

Andrea Tornielli

da Roma

I vescovi ribadiscono il loro no all’eutanasia ma anche all’accanimento terapeutico mettendo in guardia dall’atteggiamento che «si illude di potersi impadronire della vita e della morte» oggi diffuso nel mondo della sanità. È composta da 30 pagine la nota pastorale «Predicate il Vangeli e curate i malati» pubblicata ieri dalla Cei. Un documento che muove più di un rilievo critico all’attuale assetto del servizio sanitario nazionale.
Dopo aver spiegato che la Chiesa «riconosce e apprezza» i contributi offerti dalla ricerca scientifica per la migliore cura delle persone, la nota lamenta la crescita di «visioni culturali e sociali inconciliabili con il perseguimento del bene comune». Innanzitutto «un’eccessiva libertà d’iniziativa» che «rischia di emarginare i soggetti più deboli», mentre «l’esasperazione dell’uguaglianza dei servizi socio-sanitari resi alla popolazione può ingenerare la burocratizzazione della risposta, passività e acquiescenza dell’utente». La Conferenza episcopale critica poi «l’adozione indiscriminata del modello aziendale in ambito sanitario», che pur motivato da ragioni d’efficienza, «si presta al rischio di privilegiare il risultato economico rispetto alla cura della persona». E chiede anche garanzie affinché la delega alle Regioni di molte competenze assicuri pure «in misura uguale sull’intero territorio nazionale», i «livelli essenziali delle prestazioni».
Tra gli aspetti culturali presi di mira dalla nota c’è quello che già Giovanni Paolo II definiva un «atteggiamento prometeico dell’uomo», che «porta larghi settori della scienza e della medicina a ignorare i limiti inerenti alla condizione umana, contribuendo a coltivare l’immagine di un uomo padrone assoluto dell’esistenza». I due sintomi di questo atteggiamento sono l’accanimento terapeutico e l’eutanasia, tra i quali «vi è una certa continuità logica, perché in essi è sempre l’uomo a non accettare di misurarsi in maniera umana con la morte». Con l’accanimento terapeutico, si usano tutti i mezzi per posticipare la morte, mentre con l’eutanasia «l’uomo si arroga il diritto di anticipare e determinare la morte». Oggi, spiegano ancora i vescovi, la medicina non ha più l’obiettivo prioritario di far vivere, ma di «far vivere bene» e questo porta a una «rimozione delle esperienza dolorose», così, ad esempio, la vecchiaia «viene considerata un tempo dopo la vita e non tempo della vita», la disabilità «è considerata più come bisogno assistenziale che non come domanda di riconoscimento esistenziale». Si tende dunque, secondo la Cei, a spostare «i temi della salute, della sofferenza e della morte dal terreno del senso e del valore a quello della tecnica».


La nota denuncia infine «l’affievolirsi del senso della vita»: «Si fanno sforzi ingenti e accaniti per prolungare la vita e per produrla artificialmente» ma «non si permette di nascere a chi è già concepito e non si risponde adeguatamente ai bisogni» di quelle persone «che non rispondono a canoni di efficienza e di produttività» come «i disabili, le persone affette da forme gravissime di sofferenza psichica, i lungodegenti e gli inguaribili, i malati cronici».
Il documento della Cei offre quindi una serie di indicazioni per l’azione dei cristiani al fine di passare dal «curare al prendersi cura» del malato, considerandolo come una persona nella totalità del suo essere.

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