Damasco spinge Beirut verso la guerra civile

Il presidente filo-siriano Lahoud delegittima il governo. E Hezbollah scende in piazza

Per mantenerlo al suo posto e prolungargli il mandato presidenziale Damasco non esitò a pretendere le dimissioni del premier Rafik Hariri e poi a decretarne la condanna a morte. Ma Emile Lahoud, il presidente fantoccio sopravvissuto come fossile inamovibile al ritiro del grande protettore siriano e alle elezioni vinte dai suoi nemici non se ne cura. Lui, rodato strumento della politica di Damasco segue passin passetto la strategia dettata da Damasco. Cosi dopo l’uscita dal governo dei cinque ministri filo-siriani di Amal ed Hezbollah eccolo, puntuale come un cronometro della destabilizzazione, entrar in scena e accusare il governo di illegittimità. Poco importa che l’unica vestigia delle illegittimità e dei crimini politici di un quarto di secolo di occupazione siriana sia Emil Lahoud. Quel che importa è seguire i piani studiati a Damasco, immobilizzare il governo, vanificare ogni tentativo di trasferire ad una corte internazionale il processo per l’assassinio Hariri e impedire poi il disarmo di Hezbollah. Ma l’appuntamento più urgente è quello con il processo Hariri. Il progetto per il trasferimento del processo è stato presentato al governo dalle Nazioni unite venerdì scorso. Una volta liberato dalle pericolose e insidiose minacce interne quel processo, preceduto da una complessa indagine dell’Onu, minaccia di comprovare le responsabilità dello stesso presidente siriano Bashar Assad nel complotto costato la vita all’ex premier Rafik Hariri e ad una ventina di suoi collaboratori. In previsione di quell’appuntamento Amal ed Hezbollah, appoggiati dallo stesso presidente, avevano chiesto a Fouad Siniora e ai suoi alleati il controllo di oltre un terzo delle poltrone ministeriali.
Ampliando l’esecutivo da 24 a 26 ministri, regalando un paio di poltrone all’eclettico generale Michael Aoun - trasformatosi da strenuo nemico di Damasco in alleato del blocco filo siriano - Hezbollah ed Amal avrebbero raggiunto il quorum costituzionale necessario per esercitare il diritto di veto su ogni decisione dell’esecutivo. Quell’insidioso quorum di un terzo dei ministri più uno consente attraverso le dimissioni in blocco di far cadere il governo e costringere il paese a tornare alle urne. Ma Siniora stavolta ha avuto la forza di dire di no. Sfidando la minaccia di Hezbollah di mandare in piazza i propri militanti il governo ha respinto il ricatto e si dice pronto a votare il decreto sul trasferimento del processo Hariri ad una corte internazionale. Ma da qui al voto, e anche dopo, la strada è irta di ostacoli e minacce. L’accusa d’illegittimità pronunciata da Emil Lahoud si basa, secondo la lettera indirizzata dal presidente al primo ministro Fouad Siniora, sull’articolo 5 della Costituzione che prescrive la rappresentanza nel governo di tutte le componenti religiose. Una prescrizione insufficiente comunque per chiedere le dimissioni del governo o nuove elezioni. Quell’accusa presidenziale servirà perciò a dar fiato alle trombe dei militanti di Hezbollah, di Amal e degli altri gruppi filo siriani gia pronti alla mobilitazione. La loro discesa in piazza, secondo il numero due dell’organizzazione sceicco Naim Kassem, è questione di ore e potrebbe essere seguita da mosse ancora più minacciose per la compagine di governo.

«Scendere in piazza sarà uno dei passi di Hezbollah e dei suoi alleati, ma è solo il primo passo. Vi saranno altre mosse che annunceremo gradualmente dopo averle esaminate con i nostri alleati» ha detto Naim prefigurando un’escalation capace di condurre il paese alla guerra civile.

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