Con Dante nell’Inferno dell’Unione Sovietica

In esclusiva un testo nel quale il grande scrittore russo Evgenij Evtushenko fonde la sua profonda passione per i classici italiani con l'inumanità del regime comunista: "L'uomo che leggeva sottovoce il libro, avvolto nel quotidiano del partito, la Pravda, era un vecchietto"

Con Dante nell’Inferno dell’Unione Sovietica

Evgenij Evtushenko

Qual era la prima cosa che saltava all’occhio di quei pochi stranieri che venivano nell’Unione Sovietica ai tempi di Stalin? Soprattutto le file. La domanda «Dove comprare le cose?» non era così importante quanto il dubbio febbrile «Dove procurarsele?». Si faceva la fila per il pane, le patate, il salame, il latte, lo zucchero, le scarpe, i vestiti. Certe volte di notte, sino al mattino e, per non perdere il proprio posto nella fila, si segnavano i numeri sui palmi delle mani con una matita indelebile, inumidita con la saliva. La gente comune spendeva un terzo della propria vita nelle file. Ma in queste file si leggeva; di solito libri grossi, perché le file erano lunghe. E se nelle file si chiacchierava, lo si faceva piano, per non disturbare gli altri che leggevano. Attorno si sentiva il fruscio delle pagine, difficili da voltare con le mani che si gelavano persino dentro i guanti più pesanti, quando le notti erano ghiacciate.

In quelle pagine, sotto le ruote di un treno moriva Anna Karenina, soffriva Madame Bovary e i numerosi membri della famiglia Forsyte, in modo confuso e non del tutto comprensibile per i comuni cittadini sovietici, cercavano di risolvere i loro problemi familiari mortalmente noiosi, anziché essere contenti di non dover fare la fila.

Poi, d’improvviso, verso il 1946, mentre ubbidiente facevo la fila, io, un pioniere quasi ortodosso con il fazzoletto rosso attorno al collo e l’immagine del piccolo Lenin tutto riccioli sul distintivo smaltato, sentii – non si capisce come fosse penetrato da noi, nella fortezza invincibile del socialismo – qualcosa di insolito, individualistico, pieno di pessimismo, ma chissà perché irresistibilmente affascinante:

«Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura»

Sobbalzai impaurito e mi guardai attorno con cautela, sperando che nessuno avesse sentito questi versi ideologicamente pericolosi: se li avessi scritti io, avrei potuto essere espulso dai Pionieri sovietici (entrambi i miei nonni erano stati arrestati come nemici del popolo...). Sono stato educato nello spirito più ottimistico, e tutto il mio essere si sarebbe dovuto ribellare, indignato, all’idea che una selva inqualificabilmente oscura potesse, anche solo per poco, ostruire l’unica via illuminata di tutta l’umanità verso quel mai visto da nessuno, ma senza alcun dubbio salutare, comunismo.

Ma chissà perché in me non si ribellò nulla. Chissà perché ero attratto proprio non dalla «diritta via», ma da un qualche piccolo sentiero stretto, che conduce in una direzione a esso stesso sconosciuta... L’uomo che leggeva sottovoce il libro, avvolto nel quotidiano del partito, la Pravda, con i ritratti dei migliori lavoratori agricoli e dell’industria socialista bene in vista, era un vecchietto minuto e gracile, dagli occhi – pieni di astuzia e di saggezza tenace – che baluginavano dietro le lenti, una stanghetta di metallo rotta, legata con il filo grosso. La testa, sopra il cappello di coniglio dipinto a mo’ di visone, era avvolta in uno scialle di lana – quella notte la temperatura era scesa a meno 30-35 gradi – e sulla montatura dei suoi occhiali luccicava la brina. Ma nello sguardo del vecchio c’era un calore vivissimo. Disse:

– La traduzione è buona, ma in italiano mi piace di più. Ascolta: Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura... È bello, vero?

– È bello... E lei come fa a sapere l’italiano?

– In realtà, sono uno studioso di cibernetica. Ne hai sentito parlare?

– No, mai.

– Fa niente, ne avrai ancora occasione. Per ora qui, da noi, viene chiamata una falsa scienza, servilismo nei confronti dell’Occidente. Ed è per questo che sono finito dietro il filo spinato di un lager, perché, come hanno scritto nella sentenza, «strisciavo» davanti a Norbert Wiener, grande cibernetico... In compenso, lì ho imparato tante cose. Lingue comprese. E quando conosci le lingue, il mondo è tuo. In futuro tutti avranno al polso un piccolo braccialetto, quasi imponderabile, e comprenderanno tutte le lingue. Anche se, certo, questo potrebbe far rilassare la gente ed essa si impigrirebbe del tutto.

Il vecchio aprì il libro.

– È Dante Alighieri, l’autore del libro. Sai che cosa potrebbe insegnare? L’amore, come divinizzazione della donna.
Aprendo il libro mi mostrò il ritratto di un uomo che perforava il mondo intero con lo sguardo. Sembrava un’aquila con una corona di alloro di metallo, le sue labbra erano serrate con l’aria disgustata, come se davanti ai suoi occhi ci fossero persone da lui disprezzate che rotolavano chissà dove negli abissi. Forse si trattava non di disgusto, ma di pietà?

Mi sentii a disagio sotto lo sguardo di Dante: quello sguardo attraversava anche me, come tutti gli altri. Mi fidai invece subito del vecchio.

– Vuoi che ti legga un po’ di Dante? – chiese il vecchio.

– Lo voglio...

Risposi quasi d’impulso, anche se ero spaventato a morte, quando lui, in un attimo – sufficiente, però per capire che cosa vi fosse rappresentato – sfogliò sotto il mio naso alcuni disegni di Gustave Doré, come fossero carte da gioco.

– Hai paura?

– No, non ne ho.

Mentii a metà, perché la curiosità era più forte della paura e della viltà.

– Beh, sei bravo. Saresti piaciuto a Dante. Nel Canto II dell’Inferno, verso 45, scriveva della viltà: L’anima tua è da viltade offesa; la qual molte fïate l’omo ingombra sì che d’onrata impresa lo rivolve... e ancora (Canto III, verso 13): Qui si convien lasciare ogne sospetto; ogne viltà convien che qui sia morta. È la regola principale per entrare nell’inferno, ragazzo. Allora, entriamo? Mi porterai con te perché ti faccia da guida, come Virgilio?

– La porterò... – risposi, anche se non sapevo ancora chi fosse questo Virgilio.

Mi introdusse nella folla dei peccatori in punizione che si contorcevano dal dolore, raccontandomi dei loro crimini personali e degli errori a volte involontari, di solito causati dal prevalere dell’ambizione sulla coscienza. Questo vecchio aveva scelto la coscienza. E non si sa perché scelse me, tredicenne, come allievo per la sua prima lezione su Dante, che ascoltai nella fila siberiana, e non lo considerava un’umiliazione, ma una di quelle soddisfazioni morali che giustificano il piacere.

Non ho più rivisto quel vecchio cibernetico della fila di Zima, ma non ho mai dimenticato le sue lezioni di letteratura italiana e, soprattutto, i suoi commenti al Canto XXVII dell’Inferno, dal verso 7, in cui si parlava dell’ateniese Perillo che, per il tiranno di Agrigento, Falaride, aveva costruito un toro di rame, nel quale si potevano rinchiudere i condannati a morte. Una volta arroventato col fuoco che vi si accendeva sotto, il toro trasformava le grida dei prigionieri che bruciavano in muggiti. Ma il perfido Falaride ci infilò per primo il creatore di quel sadico marchingegno. Così si comportava anche il compagno Stalin con gli scienziati sovietici che lavoravano per la futura guerra. La mitologia della tirannia antica diventava realtà nella tirannia comunista.

Anna Akhmatova, mentre con altre donne faceva la fila per conoscere il destino del proprio figlio arrestato, mentalmente lavorava a una nuova versione del Petrarca. Una notte Evgenija Ginzburg, nella cella di isolamento, sentendo un’italiana, membro del Comintern, gridare disperata: «Sono una comunista italiana!» mentre al freddo gelido la bagnavano con una canna, per non impazzire a quelle grida aveva recitato a memoria i versi di Dante, dedicati a Beatrice.

Francesco Petrarca mi fece perdere, una volta per tutte, l’abitudine di lamentarmi della vita, con la risposta di Agostino a Francesco nel loro famoso dialogo: «Benché tu abbia trascorso su tutto ciò un poco confusamente, pure capisco che la causa di tutti i tuoi mali è un’impressione sbagliata che già prostrò e prostrerà infiniti altri. Giudichi tu di star male?». Boccaccio di solito viene associato all’erotismo. Per me, invece, il testo più significativo rimane l’introduzione al Decamerone, in cui descrive la marcia funesta, attraverso l’Italia, della Pestilenza, soddisfatta vincitrice che ghigna trionfante. Qui racconta come la maggioranza delle persone si arrendesse alla peste, organizzando pranzi luculliani tra montagne di cadaveri, che non facevano in tempo a togliere dalle strade, cercando di sopraffare con profumi ricercati l’odore della propria inesorabile morte. C’era chi si chiudeva, come le ostriche, nella conchiglia di ristretti gruppi elitari, sperando che questo isolamento potesse salvarlo dal contagio. In realtà solo quelli che lottavano contro la peste alla fine riuscivano a salvare se stessi e anche altri.

Quando, a Venezia, mi consegnarono il Premio Boccaccio per il romanzo Non morire prima di essere morto, mi venne in mente un poeta che si era meritato quel premio molto più di me, Osip Mandel’štam (autore di un Discorso su Dante), il quale fu il primo a comporre poesie contro Stalin, nel 1932 e, nonostante Pasternak lo pregasse, come un fratello, di non leggerle a nessuno, continuava a declamarle, inarrestabile, praticamente dappertutto. Era una questione più etica che politica, più igienica che poetica: perché, a rischio della propria vita, Mandel’štam aveva visto in Stalin il più grande veicolo della peste.

Una delle cause della peste morale è sempre stata la volgarità e Stalin ne era l’incarnazione. Adesso, anche senza Stalin, la volgarità continua a vincere nella battaglia contro lo spirito umano e la coscienza; lo si può constatare facilmente accendendo la televisione. Non ci si può nascondere dalla peste, ci ricorda Boccaccio. Bisogna combatterla. Lui, il maestro di Albert Camus e di tanti altri che non si erano arresi, è di nuovo con noi.

Nel Canto VII dell’Inferno di Dante, verso 79, c’è un aggettivo, probabilmente di quelli una volta coniati per la parola «felicità» (la «felicità vana», nella lingua odierna; «li ben vani», in Dante). Non conosco così bene l’italiano e potrei esagerare sul significato primo di questa espressione, ora diventata forse un cliché. Ma colui che per la prima volta disse «bianco, come la neve» era un genio.

Evidentemente lo stesso è avvenuto con la «felicità

vana».

È così che le ombre «vive» del Rinascimento italiano hanno salvato le vittime dell’arrestamento staliniano. E Dante, Petrarca e Boccaccio hanno fatto la fila assieme a noi, come comuni abitanti dell’Unione Sovietica.

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