Era noto e pregevole Gianfranco Fini nei lunghi anni in Parlamento, sempre con Silvio Berlusconi, al governo e allopposizione, per i suoi discorsi efficaci e ben costruiti con un lessico scelto e misurato. Oggi appare irriconoscibile, e non per le posizioni politiche e per lirreparabile astio nei confronti di Berlusconi, che lo «sdoganò» per primo e ne derivò (negli anni in cui Fini appariva impresentabile) lappellativo «cavaliere nero», ma per il declino della sua oratoria. Quello che un tempo era un linguaggio limpido e tagliente, anche beffardo, oggi appare goffo e gonfio di retorica, nel prevedibile registro del politicamente corretto.
Così Fini si lancia nellesaltazione della «meritocrazia» e annuncia di respingere lassalto di carrieristi e affaristi, dimenticando la propria carriera spudoratamente favorita da Almirante e da Berlusconi e gli affari da lui garantiti, altrettanto spudoratamente, al cognato. Nulla di male se non ci costruisci sopra una facile morale concludendo, senza ironia, che «la legalità è un abito mentale». E, mentre tutti gli astanti pensano: «Meno male che Gianfranco cè», ti affretti a smentirli in nome dellideale. Dialettica debole quindi, senza stimoli, senza paradossi e senza pensieri originali. Ma mi ha molto colpito la sgangherata costruzione di alcuni ragionamenti con la riproduzione in un intercalare che, già presente nel linguaggio di Fini, ha assunto una dimensione patologica. Il linguaggio tradisce lemozione e svela lipocrisia proprio per leccesso di sottolineature, quasi un tic. Mi riferisco allintercalare «per davvero» che Fini, anche a distanza ravvicinata, ha inserito almeno venti volte nel discorso. Per carità, niente di male. Ma ribadire, fino allossessione, che non si parla per parlare, o per ingannare (come alcuni possono pensare), ma «per davvero», è un modo di mettere le mani avanti, di far credere al proprio impegno, alla propria verità, ai propri ideali. «Per davvero». Una formula impegnativa e confidenziale; e mentre la sentivo, con il fastidio della ripetizione ravvicinata, pensavo a quellantico senatore liberale, Augusto Premoli, che io frequentavo da ragazzo, giovane ispettore alle Belle Arti a Venezia, il quale, iniziando qualsiasi ragionamento, premetteva, come se qualcuno avesse potuto dubitarne: «Se devo dire la verità». Anche dieci volte al giorno. Mi colpiva molto perché poi la verità era poca cosa.
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