Massimo Malpica
da Roma
In una coalizione che ha nel dna il bisogno di ricorrere a manipolazioni genetiche per restare unita, quel vertice della lista dellUlivo in Campania 2 (lintera regione meno Napoli) non stona nemmeno troppo: numero uno Ciriaco De Mita, numero due Massimo DAlema.
Serano tanto odiati, il leader Dc e il líder Massimo, e ora corrono a braccetto verso le urne tra Salerno e Avellino, tra Nusco e Paternopoli. Ma la pole position elettorale assegnata al guru democristiano non è scivolata via senza traumi: la base della sinistra fa molta fatica a digerire lidea che «lista unitaria» per la Quercia significhi piazzare lex avversario in cima allelenco e costringere il popolo diessino a eleggerlo, grazie al proporzionale. Tra i dirigenti, la corrente bassoliniana appoggia la scelta. Non però un politico come Michele DAmbrosio, storico leader irpino di Pci e derivati, ora a capo della Federazione avellinese della Quercia. A fine anni 80, da deputato, DAmbrosio sera fatto valere nella commissione parlamentare dinchiesta sulla ricostruzione post-terremoto, accusata dalla Dc di essere una «clava» per colpire la Balena Bianca nel nome dellIrpiniagate. E il diessino ha continuato a scontrarsi con De Mita: ancora lanno scorso, durante una crisi alla Provincia di Avellino, aveva replicato a un attacco dellex presidente del Consiglio con una battuta caustica: «A De Mita non va giù che la Quercia irpina non faccia parte del giardino della sua villa a Nusco». Inevitabile che oggi DAmbrosio, come ha raccontato a inizio febbraio lUnità, non consideri questa scelta «un grande affare» per lUlivo: «Presentandosi col volto di un uomo simbolo del vecchio regime, che ancora mantiene sotto un ferreo controllo clientelare vaste aree della Campania», per lui la coalizione finisce per «negare i suoi stessi solenni propositi di cambiamento».
Borbottano i vertici, la base ha il mal di pancia. E inevitabilmente il fianco sinistro resta scoperto. Così quando il segretario provinciale di Rifondazione, Gennaro Maria Imbriano, non se la prende solo con Berlusconi ma ricorda come «in Alta Irpinia sono ben visibili i gravi limiti che hanno segnato nei decenni scorsi le politiche democristiane», la conseguenza è che molti elettori della Quercia irpina cominciano a provare una certa attrazione per il partito di Bertinotti. E DAlema? A parole non soffre lingombrante vicino, anzi: a Salerno a inizio marzo, ha definito la lista unitaria come «vera novità» delle prossime elezioni e, pur senza mai nominare lex leader dc, ha paragonato lUlivo a «quei grandi partiti di una volta che tenevano unito il Paese».
Insomma, non sarà il nuovo che avanza quel binomio insolito sullelenco consegnato alla Corte dappello di Benevento, sede dellufficio centrale elettorale della circoscrizione, ma di certo è il segno dei tempi che cambiano. Perché fino a pochi anni fa DAlema e De Mita insieme in tribunale ci finivano per altri motivi. Successe, per esempio, nel 1988, quando il politico irpino querelò lallora direttore dellUnità. Motivo, un articolo sul destino dei fondi per la ricostruzione apparso in prima pagina sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci e allora diretto da DAlema. Che il 3 dicembre di 18 anni fa optò per un titolo un po forte: «De Mita sè arricchito col terremoto». Sotto quella bastonata, lUnità raccontava la storia del boom post-sismico della Popolare dellIrpinia, la «banca della Dc» di cui era azionista anche il leader democristiano. Fu linizio di un duro braccio di ferro tra lUnità che appoggiava la richiesta radicale di creare una commissione dinchiesta e De Mita che urlava al complotto. «Cialtronerie», replicò Il Popolo il giorno dopo, mentre il segretario Dc, annunciando querela, osservò piccato: «Comunisti e fascisti adoperano ora le stesse armi e gli stessi insulti». Gli rispose un velenoso editoriale firmato DAlema. «Quella vicenda - scriveva lex direttore - svela la logica di un sistema in cui è normale la commistione tra interessi pubblici e privati, tra Stato, affari e partito di governo. La conseguenza di questo sistema non è soltanto la mancanza di trasparenza, ma linefficienza, lo spreco, luso clientelare e partigiano delle risorse pubbliche».
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