De Mita vuole un posto per far dispetto a D’Alema

Pretende un seggio dopo aver litigato con tutti: prepara una sua lista se non verrà candidato

da Roma

Io sì, tu no, quello forse. Si riparte dalle liste degli eleggibili e puntuale e inevitabile si ripresenta il tormentone che avvince ormai metà della penisola a cavallo di questo XXI secolo. Rieccolo: torna in ballo Ciriaco De Mita inseguito da appelli alla rielezione e veti a che il suo nome compaia sulle schede. Di legislature, l’uomo di Nusco, ne ha sulle spalle ben 11; certo, un po’ meno di quelle vissute da Fanfani che ne fece 13, ma l’aretino fu eletto solo 7 volte per volontà degli italiani, visto che le altre le visse comodamente da senatore a vita.
E allora De Mita ci riprova: pare intenzionato a battere ogni record. Del resto, a 80 anni compiuti da un paio di settimane, lui si sente ancora vitale e molto più preparato di certi giovincelli cui è stato affidato il Pd. Prendete Veltroni: non sono passati che pochi anni che Ciriaco lo bollò con un sonoro «la guida goliardica del Pds» che fece tremare le vene del collo di parecchi dei Popolari, già divenuti ascari della Quercia. Il fatto è che lui, filo Pci ed evocatore di compromessi più o meno storici solo per cercare di sbarazzarsi dell’imbarazzante figura di Bettino Craxi, in realtà gli ex comunisti non è che li abbia mai amati troppo. Nel suo libro La memoria e il futuro di 10 anni fa li descriveva come una sorta di setta «illusa di costruire il loro partito come riferimento universale della realtà complessiva del Paese» e dunque gettandovi dentro, al momento di votare, «la destra, la sinistra, il centro, il mondo cattolico, gli imprenditori, i sindacati, le associazioni di categoria... una sorta di sistema stellare dove il riferimento è uno solo: il Pds».
Levate una “s” dalla sigla e mettete Veltroni al posto di D’Alema o chi per lui e cosa cambia, oggi? Nulla. Come non cambia la voglia di farlo fuori, come già accadde nel ’96. Da Roma giunse l’input ulivista a tagliarlo. Spiegò all’epoca Mastella: «È che non si rende conto di essere come un nonno che viene portato nel salotto buono una volta l’anno e il visitatore lo trova interessante. Ma per la nuora e la figlia che ce l’hanno in casa sempre, è tutt’altra storia, è un peso, una responsabilità, una noia... ». Fatto sta che Ciriaco, annunciando all’epoca che sarebbe sceso in lizza comunque, riuscì a ottenere la desistenza ulivista e divorò il malcapitato bertinottiano che gli si contrappose. Oggi, ci risiamo: è lo statuto, bellezza, gli hanno comunicato ad Avellino. Lui aggrotta le sopracciglia e notifica che farà da sé. Contro Veltroni, contro Prodi, contro D’Alema soprattutto che - sotto sotto - identifica con il suo killer numero uno. Fu proprio il ministro degli Esteri del resto, a suonare la carica per primo contro di lui: da direttore dell’Unità (era il 1988) fece titolare in prima pagina: «De Mita si è arricchito col terremoto». Poi, davanti alle proteste dell’interessato, gli disse che purtroppo era saltato in tipografia un punto interrogativo. Ma De Mita non ci credette un secondo. Da allora il duello tra i due si è fatto rusticano. Il primo a nominarlo a ogni denuncia sul malaffare democristiano, il secondo a ribattere che la Cosa 2 era «più indietro di Gorbaciov» e a rinfacciargli di essere «un pazzo che non andrà da nessuna parte». Cambia la guida dell’ex Pds oggi fattosi Pd, ma non cambia la storia: fuori De Mita, il messaggio dal loft veltroniano. A Nusco ribattono che non ci pensano per nulla e ringhiano contro gli accordi fatti da Uolter con Di Pietro. E già. Perché anche sull’ex pm, non è che Ciriaco ci vada leggero: «Stare con Di Pietro è molto più disagevole che stare con Cossiga», disse chiaro chiaro a un consiglio nazionale della Margherita, essendo a tutti noto che lui con l’ex capo dello Stato non è che non ci piglia manco un caffè, ma proprio non ci parla per niente.
E così di qui alla presentazione delle liste, il tormentone De Mita-sì, De Mita-no, tornerà a riaffacciarsi quotidianamente. Con esiti da verificare minuto per minuto.

Solo una cosa è chiara: Ciriaco vuole esserci - anche a costo di correre da solo - e di passi indietro pare intenzionato a non farne affatto anche se, a differenza del ’96, non ci sono collegi uninominali e prendere il quattro per cento in Campania per rientrare in Parlamento non gli sarà affatto facile.

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