De Profundis per l’Italietta sopravvalutata e senza atleti

Riccardo Signori

Gli ultimi pugni di Rocky Marciano, sul ring, furono una raffica di 64 proiettili consecutivi, finiti addosso al corpo ammaccato di Archie Moore, per tutti «The old mongoose», la vecchia mangusta. Era il nono round di un match crudele e struggente, in cui il campione del mondo dei pesi massimi, che aveva in «Suzi Q», la combinazione gancio sinistro-diretto destro, il colpo della sua liberazione, sentì il campanello della vecchiaia atletica: nel secondo round l’uppercut di Moore lo aveva mandato al tappeto, per la seconda volta nella vita da professionista. Intorno al quadrato Gregory Peck, Humprey Bogart, Laureen Bacall e tanta bella gente viveva il match delle proprie emozioni: eccitazione e sconcerto, brividi e pelle d’oca.
All’inizio del 9° round, Archie Moore sentiva addosso il peso del martellamento di Rocky. «Ogni volta che piazzava Suzi Q, Rocky scatenava un tremore della terra che poteva essere misurato dalla scala Richter», raccontò Charlie Goldman, l’allenatore di origine russa del campione del mondo. Ma Moore non voleva mollare. «Sono anch’io un campione, lasciami finire ko, se questa è la mia sorte», disse al dottor Nardiello che, nell’intervallo, cercò di capirne le condizioni. E il vecchio Archie si avviò all’esecuzione dei 64 colpi.
Così, il 21 settembre 1955, cinquanta anni ieri, Rocky Marciano si infilò nel mito dell’invincibile. Anzi, lo creò, gli diede fascino, lo legò al suo nome più di quanto sia riuscito a tanti altri invincibili dello sport: il Milan di Capello, Edwin Moses, il re degli ostacoli bassi con la sua striscia di 109 vittorie consecutive, Björn Borg con i 42 singoli consecutivi conquistati a Wimbledon, Giacomo Agostini e i sette titoli mondiali in moto e così Michael Schumacher con i suoi cinque di fila in Formula uno, Armstrong con i sette successi al Tour, pur pieni di misteri, Mark Spitz l’invincibile di un’olimpiade, Ingo Stenmark con i suoi tredici slalom giganti.
Invincibili a tempo, non a tempo indeterminato come lo è Rocky Marciano. Per il vero, da dilettante anche Rocky conobbe la sconfitta: la prima contro un certo Henry Lester perché tirò una ginocchiata all’avversario, altre due per via di quella mano sinistra malandata che spesso si gonfiò. Ma quando entrò nel mondo dei professionisti, Rocco Francesco Marchegiano, cognome che uno speaker storpiò in Marsiano, e da allora prese forma Rocky Marciano, divenne l’icona dell’uomo imbattibile. Anche nelle circostanze più difficili. «Come sto andando?» «Rocky stai perdendo, devi metterlo ko, non c’è soluzione», gli risposero all’angolo, prima di iniziare la 13ª ripresa del match contro Joe Walcott, il trentottenne campione del mondo. E Rocky raccolse nel suo corpo da gladiatore, compatto, tosto, non certo gigantesco come vorrebbe il mito di un invincibile, la furia e la forza che accompagnarono il destro che pestò la faccia e accartocciò i lineamenti di Jersey Walcott e lo fecero campione del mondo. Era il 23 settembre 1952. Marciano restò campione fino a quel settembre del 1955, ma annunciò ufficialmente il ritiro quasi un anno dopo: il 27 aprile 1956. Il curriculum racconta di 49 incontri (metà degli avversari non furono di gran livello), 43 vinti per ko, 6 ai punti, i primi sedici successi tutti per ko.
Certo, ogni sport ha il suo genere di invincibilità. Altre discipline costringono a sfide più continue: nella boxe i match sono più distillati. Però la lotta uomo contro uomo è crudele. Larry Holmes arrivò a un passo dalla leggenda, ma si perse al 49° incontro. Marciano era un predestinato. E seppe mantenere la sua leggenda: quando evitò di tornare sul ring, nonostante offerte da milioni di dollari. E anche quando morì a bordo di un Cessna finito in atterraggio di fortuna, contro l’unica quercia nel mezzo di un campo di grano: era domenica 31 agosto 1969, vigilia del suo 46° compleanno.

Ma la leggenda non è mai morta e perfino l’elettronica non l’ha smentita: nel 1970 un computer, fornito di tutte le informazioni sui pesi massimi, decise che Marciano avrebbe battuto Alì per ko al 13° round. E decretò che Rocky era davvero il più grande di tutti.

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