Debutto scaligero anche per regista e direttore

Lothar Koenigs direttore e Stéphane Braunschweig regista sono i maggiori artefici dell'entrata di Jenufa alla Scala. Sono entrambi giovani e al loro debutto al Piermarini. Koenigs che ha già firmato una Jenufa a Lione, sottolinea la quantità delle edizioni. La sua è quella del 1908, la versione critica dell'autore per il teatro di Brno. La stessa cui tornerà Mackerras e dopo di lui i curatori dell'edizione critica definitiva. Parla del primo organico, 29 elementi, traccia l'excursus del lavoro, ricorda il rifiuto di Mahler a dirigerla, le manomissioni di Kovarovic, il direttore del debutto praghese. Si dice entusiasta della partitura e del compromesso raggiunto tra il suono italiano della nostra orchestra e l'asprezza di quella musica slava. Il regista, che esce dalle mani di Antoine Vitez («L'insegnamento più importante? La testa non deve prevaricare creatività e poesia») e anche quanto a teatro musicale non scherza, oscillando tra un Aix e una Salisburgo dove, per Rattle e i Berliner, sta mettendo a punto il Ring wagneriano, indugia sull'approfondimento psicologico. Sul gioco di doppi che contrappone due tenori, fratellastri e cugini di Jenufa, e due soprani, Jenufa e Kostelnicka, rispettivamente figlia e matrigna, che si proiettano l'una nell'altra. Entrambe hanno vissuto. La giovane sente la colpa del figlio del peccato avuto da Števa che non la sposa, la matrigna uccide il bambino, quasi liberandola, o liberando sé stessa dal senso di gelosia. Kostelnicka, sottolinea il regista, è un testo di psicologia. Amore, invidia, delitto, autoaccusa. La musica la segue, come segue Jenufa. Nel duetto finale, in occasione delle nozze Jenufa-Laca, l'altro fratello, l'orchestra vaga senza un tonalità definita fino all'affermazione del mi bemolle maggiore che scioglie il nodo e da un segno di speranza. Un dramma di archetipi. Interviene Franco Pulcini, esperto e curatore delle edizioni Scala. «In quel pezzetto di Moravia le case di Jánacek e Freud si guardano. Non sarà un caso».

La regia, astratta, riserva la spazialità alla musica e allo spiegarsi dei sentimenti. Unico elemento figurativo il Leitmotiv della ruota del mulino che appare all'inizio e si stampa nella memoria come il tappeto di cultura rurale che sorregge l'intera vicenda.

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