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Dee, la bàlia della Luna che diventò madre di tutti gli astronauti

Dee si pettinò la frangetta con le dita con un gesto che aveva imparato da sua madre ed entrò nello Spazio come nessuno degli alieni che la stava guardando si sarebbe mai aspettato: «Scusate, chi di voi vuole un’aranciata?».
Soltanto un’altra volta aveva avuto paura così, quando gli zii andarono a prenderla al liceo per dirle con gli occhi bassi che papà, che trasportava legname, non c’era più, sepolto da una valanga di tronchi d’albero. Aveva paura ma non lo diede a vedere. E questo diventò il suo lavoro: avere paura e non darlo a vedere. Quando incontrò gli alieni era una mattina di novembre, anno 1959, hangar S: «Avevano la tuta spaziale addosso e rimasi incantata a guardarli. Mi sembravano persone di altri mondi. Erano bellissimi». Erano i magnifici sette del progetto Mercury, i primi cowboy del cielo, l’inizio del viaggio: «A quell’epoca neanche sapevamo cosa fossero gli astronauti». Dolores O’Hara, detta Dee, è la madre di tutte le Lune, l’unica forma di vita poetica tra le macchine della Nasa. Faceva il mestiere più strano del mondo «Aerospace nurse», la balia degli astronauti, la mamma di Supermen: «Ero la sorella, l’infermiera, l’amica di questi ragazzi votati al pericolo e all’ignoto. Controllavo la loro salute, la digestione, l’umore, i pensieri. Ero l’unica donna che stava vicino a loro dalla mattina alla sera: nessuno li conosceva come me». Si alzava alle quattro del mattino, dodici ore filate di lavoro. Dura e dolce, simpatica e piena di entusiasmi, fragile e bellissima come la Terra vista dalla Luna. Ma aveva potere di vita o di morte. Se l’astronauta aveva un’anomalia toccava a lei segnalarlo. E lui non partiva: «Feci un patto con loro: io non vi tradirò mai a meno che il mio parere non comprometta la vostra vita e la missione». Per niente al mondo avrebbero rinunciato al volo ma accettarono: «Avevano più paura dei medici che dello Spazio» sorride. Si prendeva cura anche delle famiglie, qualcuno le ha chiesto di fare la levatrice dei figli, qualcuno di sostituirsi alla moglie: «Prima di imbarcarsi Anders mi disse: "Dee, fino al mio ritorno occupati tu dei bambini, è meglio, grazie"».
Viene da Nampa, Idaho, origini irlandesi, per anni ha abitato un villino al 140 di Nasa Boulevard, due stanze più servizi, soggiorno e camera da letto, le pareti piene di foto con dediche, medaglie, souvenir che i suoi ragazzi le hanno regalato. Ha rinunciato agli anni più belli della sua vita e non se n’è mai pentita: «Avevo tanta paura quando partivano ma non dovevo farlo capire. Sorridevo, facevo finta di niente anche se il cuore mi arrivava in gola». Non poteva permettersi di avere la luna.
Ha lavorato in tutte le missioni, Mercury, Apollo, Gemini, Skylab, Shuttle: «Quando andavano lassù i miei ragazzi avevano la stessa aria di misteriosa felicità che hanno le donne incinte... ». I magnifici sette sono diventati un centinaio. Ventinove astronauti hanno esplorato lo spazio, dodici hanno camminato sulla Luna, tre sono morti in missione. Virgil Grissom, Edward White e Roger Chafee. Per questo quando partì Sheppard una foto la immortalò in preghiera con le lacrime agli occhi. La Nasa la prese male, processo disciplinare per disfattismo: «Sono cattolica e prego. Nessuno può togliermi il rosario». Dei suoi «bambini» c'è chi fa il consulente scientifico, chi è diventato uno scrittore, chi dipinge quadri con la polvere lunare. Senza di lei qualcuno si è perso: Aldrin nella depressione, Duke nel misticismo, Mitchell nell’occulto. «Anche perché dopo essere stato sulla Luna ti resta poco da fare» spiegava Eugene Cernan, Apollo 17. Dee ha 73 anni e il lavoro che aveva oggi non c’è più. Adesso tira fuori ragazzini dalla droga.

Piccoli balordi che la guardano come fosse un’aliena. Ma lei sa come si conquista l’impossibile: «Scusate, chi di voi vuole un’aranciata?»

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