Il destino maledetto dei due Mazen

Avevano lo stesso nome, Mazen, e la stessa nazionalità, palestinese. Facevano quasi lo stesso lavoro. Mazen Al Tomaizi, 26 anni, era corrispondente della televisione al-Arabiya, Mazen Dana, 41 anni, cameraman della Reuters. In comune hanno avuto anche lo stesso destino, uccisi da una pallottola assurda, sparata senza motivo, da un mezzo militare americano, vittime innocenti di un momento di follia. Al Tomaizi la morte l’ha vista in faccia e quella faccia era la sua, riflessa sull’obiettivo del suo cameraman. Era in mezzo alla gente in quel momento, stava raccontando di come decine di persone a Bagdad stavano ammassate attorno a un blindato americano, attaccato e bruciato dai ribelli. Non gli era piaciuta la prima ripresa. «Rifacciamola» aveva appena finito di dire. I primi colpi scatenano un fuggi fuggi poi gli elicotteri americani sparano un missile contro il tank, una scheggia lo colpisce in pieno mentre la telecamera, continua a registrare, due macchie del suo sangue restano fissate al centro dell’obiettivo. Ha solo il tempo di gridare «Seif, seif, sto morendo...» Per Mazen Dana invece la morte è un oggetto sfumato in lontananza, una macchia informe che si accende.

Sta riprendendo la prigione di Abu Ghraib quando da quella macchia, un tank americano, parte uno sparo, la telecamera cade a terra. Il soldato dice di aver scambiato la sua telecamera per un lanciarazzi. Invece quella macchia laggiù era solo un uomo.

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