Alberto Pasolini Zanelli
da Washington
Sapremo oggi dalla viva voce di George Bush qual è linterpretazione ufficiale dei negoziati in corso fra lAmerica e gli insorti iracheni. Il presidente dovrebbe dissipare almeno in parte «voci» divergenti in seno allamministrazione, tutte però con un crisma di semiufficialità tale da non meritare più la definizione limitativa di «voci». Lattesa riguarda in particolare due punti: lidentità degli interlocutori e se Washington accetterà di includere nel «pacchetto» delle trattative una data per il ritiro delle forze americane da Bagdad. È confermato che i capi della ribellione intenderebbero proporla come condicio sine qua non, almeno nella fase iniziale dei negoziati. È improbabile che lAmerica risponda di sì, ma sarebbe già significativo se ricorresse a una formula sufficientemente ambigua, finora sostenuta dalla divergenza di toni. Secondo il New York Times questo sarebbe lobiettivo principale della controparte, che avrebbe chiesto insistentemente, nel corso di colloqui che sono cominciati in segreto già nel febbraio scorso e che solo ora diventano ufficiali, proprio questo: una data. Proprio a questo si oppongono i militari Usa, compreso il generale Abizaid, che ha sempre dato giudizi realistici della situazione anche in contrasto con lottimismo dobbligo di Rumsfeld e di altri politici. Abizaid avverte che «cè solo un modo in cui il nemico possa vincere: spingerci fuori prima che lesercito iracheno sia pronto a scendere in campo». È improbabile che il presidente contesti oggi ufficialmente questo monito, anche se si prevede che egli potrà attenuare i toni, anche o soprattutto per motivi politici. Se la guerra è stata una decisione controversa che ha diviso gli animi, gli sforzi per porvi termine devono avere un consenso ben più ampio. E che esso stia arrivando ha indicato intanto il più fedele e importante alleato, il premier britannico Tony Blair, che si è affrettato a dare la sua benedizione ai negoziati dichiarando che è «perfettamente sensato» discutere con i ribelli, ma non con i più estremisti.
Il fine è quello di dividere gli insorti, o meglio quelli di marca sunnita (con gli sciiti, anche i più militanti, lAmerica è già venuta a patti dopo linsurrezione guidata da Moqtada Al Sadr) secondo un discrimine piuttosto elastico: fra i «combattenti» e i «terroristi». Il nome più importante del secondo gruppo è quello di Al Zarqawi, più facile da emarginare perché non iracheno e pezzo dappoggio residuo della vecchia teoria secondo cui linsurrezione non era autoctona. Ma sotto la prima definizione ricadono gruppi non meno attivi sul piano militare e fino a ieri definiti terroristici, fra cui lAnsar al-Sunna, che ha organizzato lattentato che fece ventidue morti nella base americana di Mosul e lArmata Islamica, che ha rivendicato fra laltro luccisione del giornalista italiano Enzo Baldoni.
Ma il punto centrale sul piano politico va al di là delle sigle. Tutto starebbe a indicare che gli americani sono pronti a trattare, o già stanno trattando, con le due componenti principali dellopposizione armata sunnita: quella integralista collegata con lideologia di Osama Bin Laden e quella «baathista», che fa riferimento a Saddam Hussein. Fino a non molto tempo fa le autorità politiche di Washington definivano «tagliagole» questi nostalgici. Adesso essi vengono riconosciuti come un interlocutore politico con un certo seguito nel Paese.
Comunque stiano le cose, le trattative sono destinate a rimanere ancora tinte di giallo. Quasi tutti i gruppi più rappresentativi di ribelli si sono affrettati a smentire: nessun negoziato con gli «infedeli».
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