Dire al capo «pazzo e cretino» non è reato. Anzi, gli fa bene

Nicola P. è uno che - nel momento del bisogno - tira sempre fuori gli attributi. No, non in quel senso... Nel caso di Nicola il termine attributi sta per aggettivi: cioè paroline agrodolci sempre pronte a insaporire piatti da scodellare sugli opposti tavoli del complimento o dell’ingiuria. Nicola, di fare complimenti al suo capo, non ci ha mai pensato; di ricoprirlo di insulti, invece, sì. «Pazzo! Scemo! Cretino!». Epiteti sparati un po’ in faccia, un po’ alle spalle. Come da manuale del perfetto quaquaraquà.
Tutto era cominciato nella migliore tradizione del mugugno impiegatizio. Per Nicola, infatti, la macchinetta aziendale del caffè si era trasformata in un fumante muro del pianto a misura di «incompreso». Un classico del malcontento. Sindrome di Fantozzi galoppante. Giù allora calde lacrime di frustrazione che partivano dagli occhi, rigavano le guance e - non appena toccata la bocca del travet - si vocalizzavano in triplice offesa: «Pazzo! Scemo! Cretino!». Nicola vomita il tris addosso al boss; il boss lo rivomita addosso al superboss e il superboss lo ririvomita addosso al maxiboss. Così vanno le cose sui luoghi di lavoro.
Ma ora quella che poteva sembrare un’acida catena di sant’Antonio (ci perdoni sant’Antonio) è stata riabilitata - alla grande - dalla Cassazione, secondo cui le parole «pazzo», «scemo» e «cretino» non configurano «alcun reato da parte del dipendente che le rivolge al capufficio». Anzi, tali definizioni hanno addirittura una «valenza positiva» in quanto «funzionali a motivare e spronare al meglio» il diretto superiore.
Si tratta di termini «sicuramente ineleganti», che «riassumono in modo rozzo il pensiero di chi lo pronuncia», ma che «di sicuro non hanno valenza diffamatoria, essendo entrati nel linguaggio parlato d’uso comune». È uno dei passaggi chiave della sentenza con la quale i giudici della V sezione penale della Corte di Cassazione hanno accolto il ricorso presentato da Nicola P., un professionista romano, e annullato senza rinvio la condanna al risarcimento dei danni emessa dalla Corte d’appello della capitale.
Quella «raccontata» dalla sentenza è una storia di ordinario lavoro, nella quale non farebbero fatica a riconoscersi generazioni di dipendenti: un ufficio gestito in modo troppo burocratico, una sostanziale allergia alle critiche da parte di chi comanda, un manipolo di colleghi pronti a vestire i panni degli yesmen pur di compiacere il capataz.
Nel dettaglio: Nicola, 45 anni, collaboratore dello studio legale di cui è titolare Giuseppe B., nel commentare una nota interna con l’addetta all’ufficio contabilità, sbotta: «Basta, ho deciso, io con l’avvocato ci parlo, ci discuto, non sono come chi gli dice sempre “sì avvocato... certo avvocato...”. Giuseppe è un pazzo, vuole restare circondato da leccaculo...». Lo sfogo ha solo due spettatori, ma l’addetta alla contabilità ne riferisce zelantemente il contenuto in una lettera al titolare dello studio e così Nicola lo smargiasso si ritrova querelato per diffamazione.


Assolto in primo grado, ritenuto colpevole in appello - anche se il reato è nel frattempo dichiarato prescritto - Nicola P. non ci sta e si rivolge alla Suprema Corte. Ottenendo soddisfazione su tutta la linea. Alla faccia di quel «cretino» del suo capoccia e di quei «leccaculi» dei suoi colleghi. Tiè.

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