Se non esitasse a chiudere il film, Lars von Trier avrebbe firmato con Il grande capo una delle opere migliori del 2006. Ma, anche così, è una verosimile ricostruzione di vita aziendale, dove il padrone si libera dei soci, ma è imbarazzato di perdere l'immagine di bonario primus inter pares. Il quadretto del paese del Lego è amaramente esilarante. Tutti i personaggi sono i visti solo in un ufficio e in orario lavorativo, con le nevrosi che accompagnano questa forma di alienazione collettiva. Sono allucinati i lavoratori disoccupati finlandesi dei film di Kaurismäki? Sono addirittura fulminati i tecnici computeristi del film di von Trier, così presi dal loro gergo da non accorgersi di essere stati presi in giro, per anni, dal loro amico/socio/padrone e d'esser giunti alla fine del loro sogno d'autogestione. Von Trier non rivela subito il dramma. Anzi, all'inizio tutto pare una farsa... Un attore viene ingaggiato per spacciarsi da principale azionista, con sede a Washington, dell'azienda e prendersi la responsabilità della sua vendita. Ma l'attore ignora che cos'è un'azienda e l'effervescente follia dei tipi da raggirare neutralizza la sua limitata inventiva. Per di più l'acquirente è un islandese che disprezza i danesi e non lo nasconde, coprendoli di insulti nella trattativa. La somma dei disagi mentali raggiunge l'apice con la continua evocazione di un autore teatrale, Gambini, col quale von Trier allude a Ibsen, noto per avere descritto disagi nordici di ogni tipo. Stravaganza, abbruttimento, delirio confluiscono in un'allegra disperazione.
Chi ha angosce di lavoro, troverà compagnia nel Grande capo e anche quella consolazione che gli ingenui cercano nelle commedie brillanti.IL GRANDE CAPO di Lars von Trier (Danimarca, 2006), con Jens Albinus, Peter Gantzler. 99 minuti
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