Nel centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, si sta facendo finta che nel nostro Paese il fascismo non ci sia mai stato. Espungiamo, in pratica, un quarto di secolo del nostro Novecento e dalla Grande guerra passiamo al secondo dopoguerra come se niente fosse stato, derubricando il fascismo a mera forma senza contenuto. Così facendo, continuiamo a fare uscire dalla finestra i nostri padri e le nostre madri, il nostro passato prossimo, che però poi facciamo rientrare dalla porta della stessa casa travestiti in mille modi: fascisti ignari, fascisti tiepidi, fasciati involontari, fascisti costretti, fascisti per caso, per necessità, per comodo, fascisti antifascisti...
Non avendo voluto definirli, semplicemente, italiani, siamo persino ricorsi all’idea che fosse stato solo il fascismo a combattere e a perdere la guerra, un modo per dire che l’Italia in fondo non c’entrava. Al tempo, quello della resa incondizionata e dei trattati di pace postbellici, non ci credette nessuno, ma il nostro è uno strano Paese, dove si pensa che negando ogni evidenza ci sia posto per una realtà altra, falsa e però vera.
Proprio perché negato, il fascismo resta il convitato di pietra dell’Italia repubblicana, antifascista e postfascista, capro espiatorio su cui scaricare ogni responsabilità.
Contro ogni logica, una volta costruito il fantoccio del regime ridicolo, inviso a tutti gli italiani, lo si agita però come spauracchio e non si capisce perché non essendoci stati i fascisti al tempo del Duce, ci dovrebbero o potrebbero essere i fascisti a duce defunto e seppellito.
In quest’ottica, l’iniziativa di un gruppetto di senatori del Pdl e di un fiellino di chiedere l’abolizione della XII norma transitoria della Costituzione, quella che vieta «l’organizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista», è l’eterna commedia dell’arte della politica italiana. Va da sé che se si trattasse di una norma di qualche senso compiuto, non si capirebbe perché nell’ultimo cinquantennio l’etichetta infamante di «fascista» sia stata quella più gettonata. E va sempre da sé che, se è transitoria, è lecito pensare che mezzo secolo sia un periodo sufficiente per poterne fare a meno.
Torniamo da dove siamo partiti.
Fra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945 si consumò in Italia una tragedia di proporzioni morali spaventose: sarebbe stato necessario un esame di coscienza spietato, individuale e collettivo. Prevalse invece il vizio italico della furbizia, trionfò il cinismo dolente di chi non ha mai saputo credere in nulla. Pensammo che pochi mesi fossero sufficienti a scrivere l’errata corrige di una storia ventennale. Sputammo accortamente sotto vento per evitare di sputarci in faccia.
Perché questo autoinganno avesse un senso e un valore, era necessario alterare alcune elementari verità: il crollo del fascismo non dovuto a una reazione interna e accelerato da una resa dei conti planetaria; il generale consenso al regime almeno fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Invece che riflettere su questo, e su questo magari inchiodare il fascismo alle sue responsabilità, si preferì avallare l'idea di un ventennale incidente della storia, di una presa di possesso perpetrata e perpetuata fra il disinteresse e l’ostilità degli italiani; di un’opera buffa prima,e poi tetra, che aveva visto tutti contro, nessuno a favore, se non una piccola minoranza di comici e briganti.
«La grave colpa dell’intelligenza italiana d’oggi»,scriverà polemicamente l’intellettuale comunista Franco Fortini ancora nel 1948, «è quella di essersi vigliaccamente rifiutata a ogni serio esame di coscienza e di aver dato da intendere che la sua vita di quegli anni (vita larvale perché limitata nel proprio lessico) sia stata la sua “resistenza”».
In realtà, come più tardi dal versante cattolico scriverà Geno Pampaloni, per quelli della sua generazione, la stessa cioè di Fortini, «il fascismo prima di essere un avversario, fu una delusione ». La grandiosità della retorica delle promesse, la mitologia di un «uomo nuovo», la mistica diun’Italia rurale e guerriera si infransero contro il muro di un antico conformismo di massa, contro le miserie morali e intellettuali di una classe dirigente impari alla bisogna, contro gli errori all’insegna del calcolo più o meno meschino...
Ammettere una tale delusione avrebbe però significato ammettere le illusioni che ne erano state alla base, l’aver creduto l’aver fatto finta di credere, i secondi fini e gli entusiasmi. Avrebbe significato, altresì, il misurarsi, una volta per tutte, con la realtà di un Paese che, come egli scriveva, «aspetta sempre dagli altri e da fuori benefici e favori, pronto a votarsi a chiunque prometta e dimostri di essere potente».
Così non fu ed è su questo rifiuto che si erge il mito fondante della nuova Italia: un popolo in armi, una guerra di liberazione nazionale, un’epopea di massa... Ha scritto lo storico Claudio Pavone che «ancora oggi considerare l’otto settembre come una mera tragedia o come l’inizio di un processo di liberazione è una linea che distingue le interpretazioni d’opposte sponde».Non è così,non è lì lo spartiacque riduttivo fra fascismo e antifascismo.
È fra chi si rende conto che la catastrofe abbattutasi è nazionale, morale prima che politica, riguarda il carattere, incide sulla nostra immagine futura, segna il riemergere di vizi antichi; e chi preferisce, anche in buona fede, non vedere, rifugiarsi nella complicità naturale degli istinti primari, sopravvivere innanzitutto, riordinare i più rassicuranti cliché di un’italianità buona, umile, sottomessa, cui, per fortuna, sono negati destini più grandi, ma più tragici. Per cui si può dar vita a un' Odissea casareccia, come quella che racconterà Italo Calvino ancora a ridosso della fine della guerra. «Cos’è infatti l’“Odissea”? È il mito del ritorno a casa, nato nei lunghi anni di “naia” dei soldati portati a combattere lontano, dalle loro preoccupazioni di come faranno a tornare, finita la guerra, dalla paura che li assale nei loro sonni di non riuscire a ritornare mai, di strani ostacoli che sorgono sul loro cammino.
È la storia degli otto settembre, l'Odissea, la storia degli otto settembre della Storia: il dover tornare a casa su mezzi di fortuna, per paesi irti di nemici».
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