La dolce (e amara) vita del principe del jazz

Nobile e anarchico, batterista e gaudente. Ritratto di un uomo libero, fra scandali e musica

La dolce (e amara) vita del principe del jazz

Su uno degli scaffali della mia libreria c'è una foto incorniciata risalente alla prima metà degli anni Settanta. È stata infatti scattata al Music Inn, il locale jazz di Largo dei Fiorentini, a Roma, inaugurato nel 1974. Ho un'enorme testa di capelli neri, al mio fianco c'è una ragazza molto graziosa, una specie di lampada messicana alle spalle, un poster alla parete in cui lo scatto del fotografo ha tagliato la parte superiore, un musicista, comunque, siamo su un divanetto, si intravede una finestrella con le sbarre, perché il locale era in uno scantinato. Io di jazz non capivo nulla, anche se mi atteggiavo ripetendo qualche nome imparato a memoria, ma a lei piaceva e quindi presi pure la tessera di socio... Due anni dopo lei non c'era più e così cancellai il Music Inn dalle mie frequentazioni notturne, e la cosa mi dispiacque. Non per il jazz, ma per il direttore-proprietario-animatore, nonché batterista di talento, stando agli esperti, di quel luogo da fuori di testa: si chiamava Pepito Pignatelli, era un principe che parlava il romanesco con la erre moscia, era simpaticissimo, aristocraticamente alla mano, nel senso che era lui a dare confidenza, non tu a prendertela, era spesso e volentieri ubriaco.

Quando si fa la storia dei luoghi culturali e di spettacolo che hanno rinnovato il clima di una città, in questo caso di Roma, spesso ci si dimentica, quasi sempre per conformismo politico, del vissuto che stava alle spalle di chi li fondò e li rese vivi. Ad esempio, pochi sanno che il Piper Club, quello che portò il beat e l'Inghilterra nella città eterna, era opera di Alberico Crocetta, un ex marò della X Mas... Altro esempio, inerente proprio a Pepito Pignatelli: il suo vero handicap, che gli precluse l'occhio di riguardo dell'amministrazione capitolina, prima democristiana, poi comunista, fu essere un principe, anticomunista, certo, ma né baciapile, né nostalgico, anche se nell'album di famiglia c'erano preti e santi, anche se un suo zio acquisito, Valerio Pignatelli di Cerchiara, era stato tra i fondatori del Movimento sociale italiano e il padre nella cerchia degli invitati presenti al Quirinale al pranzo organizzato da Vittorio Emanuele III in onore di Hitler in visita a Roma... «Io so' anarchico» diceva Pepito Pignatelli, «io non ho mai votato in vita mia»... E però negli anni Settanta di Umbria Jazz, trovatosi a Perugia reduce dai fischi dei contestatori gruppettari a Sarah Vaughan, «negra bianca» in quanto simbolo del capitalismo borghese, non aveva resistito alla tentazione di intonare, sotto la sede del Pci, il ritornello dello squadrismo fascista: «Fascisti e comunisti giocarono a scopone/ E vinsero i fascisti con l'asso di bastone».

Questo racconto, insieme con tanti altri, fa da sfondo a Pepito il principe del jazz (Minimum fax, pagg. 223, euro 16), di Marco Molendini, che gli fu amico fraterno per gli ultimi dieci anni di un'esistenza breve: Pignatelli morì nel 1981, a cinquant'anni. Molendini è un critico musicale di lungo corso, autore di libri su Frank Sinatra, Caetano Veloso, Gilberto Gil. Cominciò alla fine degli anni Sessanta proprio grazie a Pepito, che lo presentò al direttore di Momento-sera, uno dei quotidiani romani del pomeriggio, suo buon amico. «Devi scrivere di musica su un giornale. Ce penso io». Nei quotidiani del pomeriggio si andava a lavorare al mattino presto, Molendini era giovane e tirava tardi nei locali dove appunto si faceva musica: una mattina svenne sull'autobus che lo portava in redazione e si ritrovò all'ospedale San Giacomo. «Svejasse la mattina fa male alla salute, è pericoloso» gli disse ridendo il principe. «Quanno ero al collegio me facevano arzà alle 6, stavo pe' finì ar sanatorio».

Prima del Music Inn, nel 1970, c'era stata per Pepito l'esperienza del Blue Note, dietro Campo de' Fiori, con la festa di inaugurazione bagnata da Veuve Cliquot e conclusa con la distruzione di tutta la cristalleria, bottiglie, piatti, bicchieri, fatta dallo stesso Pepito in preda a euforia alcolica. Il Blue Note ebbe vita breve: i soldi provenivano soprattutto da un principe siciliano suo amico, Manfredi Lanza, che dall'oggi al domani scomparve da Roma: la famiglia lo aveva richiamato all'ordine, con la minaccia di farlo interdire... Non avendo la licenza per vendere alcolici, la polizia mise i sigilli, sequestrando anche l'incasso dell'ultima serata. La Roma dei primissimi anni Settanta, Molendini la conosce bene e la racconta bene. È ancora vivibile e la politica sta ancora al suo posto, permette che ci si parli e ci si frequenti anche se la si pensa diversamente. C'è il Film studio, c'è il Beat '72, c'è la casa-atelier di Mario Schifano, il Folk studio, i teatrini off, soprattutto c'è Trastevere, dove abitano poeti come Rafael Alberti, registi come Valerio Zurlini, attori come Gian Maria Volonté e ai tavoli di Santa Maria in Trastevere ci sono i fratelli Spoletini, i re delle comparse di Cinecittà, con il maggiore che si è scelto per nome d'arte William Bogart, purissimo concentrato di Hollywood...

Anche Pignatelli sta a Trastevere, in via della Lungaretta, un quarto piano-attico senza ascensore. Ha quarant'anni, una vaga rassomiglianza con Humprey Bogart, una passione per l'America senza averci mai messo piede. Soprattutto, è uno che ha già vissuto molto. In fondo, i pochi anni del Music Inn saranno la sua rivincita e il suo epitaffio. Pepito vive e muore di Music Inn, letteralmente.

Di quel prima, Molendini, che è stato anche cronista al Messaggero, fa un'efficace ricostruzione, anch'essa romanocentrica, come del resto la vita di Pepito, uno che nell'album di famiglia aveva un Papa, Innocenzo XII, e il conquistatore spagnolo per eccellenza, Hernán Cortés, e infatti Giuseppe Gonzalo Felipe Pignatelli Aragona Cortés recitava per intero il suo nome, seguito da tutti i marchesati, i ducati eccetera che riempivano la mattonella di ceramica appesa nella cucina di casa sua...

Negli anni Cinquanta di quella che fu la Dolce vita, ma non lo sapeva, Pepito ebbe un suo ruolo. A nemmeno vent'anni ha aperto il suo primo locale. Si chiama Mario's, sta all'angolo di via Veneto: i soldi ce li ha messi un ex barman dell'hôtel Excelsior, suo padre ci ha aggiunto il nome che porta e le amicizie che quel nome comporta, lui l'entusiasmo e la passione per la musica. È il primo jazz club italiano e l'ha fondato lui, ricorderà sempre con fierezza. L'esordiente Zurlini girerà lì Il blues della domenica sera, un film-documentario i cui protagonisti sono i ragazzi della Roman New Orleans. L'avventura dura due anni e nell'attesa di aprirne un altro Pepito suona alla Rupe Tarpea, ai Nottambuli, al BrickTop, tutti in via Veneto e tutti nati dopo.

Allora via Veneto, nelle parole di Ennio Flaiano, «non è una strada. È una spiaggia. Le automobili scivolano come barche e il pubblico prende il fresco e si muove da un tavolo all'altro, o su e giù, con l'indolenza delle alghe». Roberto Rossellini ci arriva in Ferrari, Raf Vallone in Jaguar, Anthony Quinn in Mercedes. Ci sono le feste, ci sono i festini. Quello di Capocotta, nel 1953, dà il via al cosiddetto Caso Montesi, dal cognome della ragazza trovata morta su quella spiaggia, e stronca sul momento la carriera di Piero Piccioni, pianista raffinato, fidanzato di Alida Valli, figlio del leader democristiano Attilio Piccioni, che per quello scandalo si dimetterà da ministro degli Esteri.

Tre anni dopo, lo scandalo del Victor American Bar stroncherà quella di Pepito. C'è stata lì una rissa, per via di un avvocato che credeva di comprare cocaina e si è ritrovato con del bicarbonato, è arrivata la polizia, è partita un'indagine che si è allargata ai frequentatori abituali del locale e al relativo giro di droga. Ci finisce dentro il principe Torlonia, il duca della Rovere, il marchese de Seta, ci resta impigliato senza colpa l'attore Carlo Croccolo. «La palude del mondo putrido e corrotto dei seguaci della cocaina riempie con i suoi miasmi l'aula del tribunale» scrive il Corriere d'informazione. Pepito si difende male: «Ero ubriaco come una cocuzza, non capivo niente» dice in tribunale. Lo condannano a due anni di carcere, da scontare a Regina Coeli. Quando esce, il padre è morto, lasciandogli un patrimonio di debiti: «S'era magnato tutto» riassumerà il figlio. Intorno a lui c'è diffidenza, la sua carriera di batterista non riparte, e poi non è quella che gli darebbe da vivere. L'unica cosa positiva è la diciassettenne di buona famiglia, Maria Giulia Gallarati, detta Picchi, che di lui si è innamorata vedendone le foto mondane sui rotocalchi, che gli ha scritto in carcere e in carcere è andata a visitarlo, e con la quale si sposerà una volta uscito. Il grande amore della sua vita.

Nel 1974, l'anno del Music Inn e dell'austerity in Italia, targhe alterne per la circolazione delle macchine, niente luci nelle strade, cinema chiusi alle 22, saracinesche per bar e ristoranti entro la mezzanotte, all'idea di non poter riaprire, Pepito si ricorderà di quanto ha già passato: «Ce so' stato in galera, altro che austerity. Io apro pure se me danno foco cor petrolio».

Pepito il principe del jazz è un libro scritto con partecipazione ed è un libro a tratti commovente, oltre che il giusto tributo a un nome troppo in fretta

dimenticato. Picchi Pignatelli morirà suicida anni dopo, incapace di rassegnarsi. Una delle poche figure femminili per le quali il verso di Paolo Conte «le donne odiano il jazz/ non si capisce il motivo» è una stonatura.

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