Cultura e Spettacoli

Dominique Sanda: "Ho provato tutto, ma non mi sono persa"

Dominique Sanda: "Ho provato tutto, ma non mi sono persa"

Roma - «Per farmi fare una cosa bastava vietarmela. Ho sempre preso tutto come una sfida, fin da ragazzina, e soltanto da qualche anno a questa parte ho trovato una sorta di equilibrio: mi sono innamorata, ho riscoperto la natura, il silenzio, la scrittura... A quindici anni avevo un ragazzo, ma ai miei genitori non piaceva. Eravamo una famiglia classica, con un’educazione rigida, papà era un ingegnere, mamma non lavorava, avevo un fratello più grande di me di 17 anni, un estraneo in pratica... Ci fu un aut-aut: “O non lo vedi più o ti sposi”... Di lì a tre mesi mi sposai, andai via di casa, divorziai. “Ti perderai” mi dissero ed è una frase che non ho mai dimenticato, una frase orribile da dire a una figlia, a una sorella. Avevo cominciato a fare la modella, poi era arrivato il cinema, per loro erano mondi incomprensibili. A vent’anni ho deciso di avere un figlio, ma di allevarmelo da sola, non volevo uomini per casa che mi dicessero questo sì, questo no... L’anno dopo ero già madre.
«Credo che i rapporti fra generazioni siano sempre conflittuali, occorre saltarne almeno una perché ci sia una reciproca accettazione. Adesso sto scrivendo una sorta di romanzo che ha per protagonista la mia nonna paterna: guardando le sue foto rivedo me ragazza e poi donna e quindi scrivendo di lei racconto in fondo anche la mia vita. Il passato è come un pozzo magico da cui puoi attingere, scegliendo e scartando, è l’esistenza che ritorna e si mischia al presente, le madeleines proustiane, ricorda... È come vedere un’alba e un tramonto, le stagioni che si danno il cambio e sempre ritornano. C’è un libro di Marguerite Yourcenar che amo molto, A occhi aperti, che è una meditazione sulla solitudine. Dice che chi la conosce già da ragazzo comprende meglio gli altri. I solitari non sono mai persone sole, hanno una capacità di ascolto superiore, e anche maggior sensibilità. Mi ci ritrovo molto e se mi guardo indietro posso dire a me stessa che ho vissuto, ma non mi sono persa».
Piove, c’è vento, fa freddo e Dominique Sanda, che è arrivata dal sole caldo dell’Uruguay, è imbacuccata come una babuska russa. Ha un mantello, un foulard sopra i capelli, un completo di velluto color marrone bruciato e sotto un corpetto di lana. Ciò che di lei si vede sono queste lunghe mani nervose e il grigio-azzurro degli occhi, lo sguardo dolce eppure enigmatico della Micol del Giardino dei Finzi-Contini, icona splendente e sfuggente della bellezza anni Settanta. Man mano che la temperatura della stanza si riscalda, un tè bollente la rianima e lei decide di togliersi velo e soprabito, vengono fuori dei lunghi capelli ramati e un corpo flessuoso. «L’ho accompagnata a provare gli abiti di scena» mi dice chi le fa da chaperon e da autista. «Non ha una smagliatura e le gambe, ah, le gambe. Spero che lasci presto questo suo marito filosofo e fugga con me. Sono pazzo di lei». Dominique gli fa con le mani il gesto scaramantico delle corna: «Dai, lo sai che è l’uomo della mia vita... Comunque, puoi sempre dire che il mio fisico per te non ha segreti». E poi ride, un riso pieno e divertito di ragazza.
A Roma la Sanda è venuta chiamata dalla Fondazione Fendi. «Interpreto il testo di una mistica cristiana su Dio come elemento femminile, il Cristo come nostra madre. È una parte molto bella e io ormai scelgo solo ciò che mi piace, non ho bisogno di lavorare, lavorare stanca. E poi c’era questa possibilità di tornare in Italia, un Paese che in pratica mi ha adottato e con il quale ho una relazione magica, e pazienza se oggi a Roma è brutto tempo, sono sicura che domani sarà bellissimo... Quando sono andata a vivere in Argentina, mi sono ritrovata circondata da italiani, nei cognomi, spesso nella lingua, nel modo di agire e di pensare. Dev’essere un destino».
A guardare i nomi dei registi con cui Dominique Sanda ha lavorato c’è da farsi venire il capogiro: Bresson, Visconti, De Sica, Huston, Frankenheimer, Bertolucci, Cavani, Bolognini, Risi. «Vittorio De Sica è stato quello con più charme, aveva un’eleganza e una dolcezza innate... Adesso in Francia si apprestano a rimettere in circolazione Il giardino dei Finzi-Contini, mi hanno chiesto di fare la promozione del film e naturalmente ho detto sì, fa un po’ parte della mia vita... Con Bernardo Bertolucci sette anni dopo Il conformista ho fatto Novecento, ed è stato un po’ come ritrovare un amico, sai già cosa vuole, cerchi di venirgli incontro e di risolvergli i problemi... Luchino Visconti l’avevo conosciuto al tempo dei Finzi-Contini, uno degli interpreti era Helmut Berger, che allora viveva con lui in via Salaria, e così spesso ci si ritrovava a casa sua. Mi ricordo che allora vidi in salotto la foto di una donna bellissima, sua madre. Quando in seguito girai Gruppo di famiglia in un interno, lui venne al trucco portandosi dietro un pastello che la raffigurava: mi voleva così, con quella pettinatura, quel tipo di abito... Impersonarla fu per me un motivo di orgoglio. Era già malato, sulla sedia a rotelle: “La testa funziona sempre” mi disse sorridendo una volta che mi sorprese a fissarlo. Mi sembrava sereno, ma avevo poco più di vent’anni e quando si è giovani non si ha la coscienza del dolore altrui. Si è troppo piegati sui propri».
Il regista per eccellenza rimane però Robert Bresson. «Ho fatto con lui un solo film, Così bella, così dolce, ma è stato il mio esordio nel cinema e lui il padre che in quel momento avrei voluto avere. La cosa curiosa è che mi ha scelto per la voce, mi ha scelto al telefono... Io allora facevo la modella, viaggiavo molto, avevo successo, era un lavoro che mi piaceva, ma sentivo che sarebbe arrivato qualcos’altro. Ricevetti questa chiamata, parlammo a lungo e poi andai da lui, all’Isle Saint-Louis. Mi fece leggere un testo di Bernanos e dopo andammo a fare shopping insieme: “Voglio che tu scelga i vestiti per il tuo personaggio” mi disse. Era una persona speciale, e io una ragazzina sensibile e fragile, già donna ma ancora bambina. Sentivo che mi voleva bene, che mi avrebbe protetto».
Nel Duemila Dominique Sanda si è sposata con il filosofo romeno Nicolás Cutzarida e insieme vivono fra l’Argentina e l’Uruguay. Negli anni Novanta ha affiancato al cinema il teatro, ma la sensazione è che la la recitazione non sia più per lei una ragione di vita. «Lo è stato, certo, ma fare l’attrice significa mettere la propria pelle in esposizione e questo è doloroso. Recitare vuole anche dire soffrire e a un certo punto ho sentito il bisogno di dire basta. Veda, a lungo per me c’è stato solo il mestiere: ero donna, ero sola, volevo riuscire e avevo paura di fallire, il “ti perderai” dei miei genitori... Così ho sempre stretto i denti e sono andata avanti. Ho fatto teatro, anche qui, per sfida: volevo vedere se riuscivo ad andare sino in fondo, approfondire la mia arte, essere in comunione con il pubblico. Il teatro ti insegna a vivere, non è fatto di momenti, di attese, come il cinema, si è più soli eppure c’è un senso maggiore di comunità, con gli altri attori, con gli spettatori. Essere attori vuol dire non rimanere passivi, far uscire quello che si ha dentro. Siamo tutti timidi, complessati, pieni di difficoltà, di dubbi. Io ho una grande capacità di adattamento, ai Paesi, alle situazioni, e così nel recitare cerco un’identificazione, un essere e non un pretendere di essere. Ho conosciuto grandi attori istrioni, ma non è il mio caso. Però tutto questo comporta molta fatica, molta concentrazione e sviluppa una sensibilità al limite della nevrosi. Se io non avverto sentimento intorno a me, soffro, mi allontano e questo alla lunga è pericoloso. Aver incontrato Nicolás mi ha fatto capire che c’è anche dell’altro, che bisogna accettare e accettarsi, che la vita è circolare, il passato è nel tuo presente, il tuo presente si nutre di ciò che è stato».
A Buenos Aires Dominque Sanda vive in una casa che dà sul Giardino zoologico, in Uruguay in una che dà sull’Oceano Atlantico. «A Baires c’è una buona vita culturale, ma arriva poco cinema europeo e più cinema americano, che non è il mio genere. L’Uruguay, invece, è la natura, gli alberi, i cani, il camino, il mare. Le mie radici sono bretoni, da ragazzina andavo in vacanza sull’Atlantico: ritrovare lo stesso mare è stato come un abbraccio, recuperare qualcosa che avevo dimenticato... Questo vivere fra due nazioni mi piace, mi è sempre piaciuto viaggiare, ho sempre pensato che la bellezza della vita sia nella diversità, nella unicità delle persone e dei Paesi. Non ho mai amato le etichette, ho sempre detestato l’uniformità.

A volte mi sorprendo a guardare le persone, a vedere come il tempo si è posato sui loro volti: il tempo parla e, come diceva la mia amata Yourcenar, è un grande scultore».

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