Arte

Dove c'è molta Bellezza l'opera è più nera

Perugino e Burri: a 500 anni di distanza l'arte dei due maestri umbri si confronta sullo stesso colore

Dove c'è molta Bellezza l'opera è più nera

Pietro di Cristoforo Vannucci (1450-1523), detto «il Perugino», nato a Città della Pieve, meno di 50 km a sud di Perugia, fu indicato dal banchiere Agostino Chigi, uno dei più grandi mecenati del '500, «Il meglio maestro d'Italia». Era la star della pittura della propria epoca. Per fare un esempio, il polittico originariamente destinato alla chiesa cittadina di Sant'Agostino gli fu pagato la considerevole cifra di 500 ducati d'oro. Alberto Burri (1915-95), di cinquecento anni più giovane, nato a Città di Castello, poco più di 50 chilometri a nord di Perugia, pittore e scultore del quale Giuseppe Ungaretti scrisse che era il «miglior poeta» del tempo, fu già una arti-star in vita, e oggi è un top player del mercato dell'arte mondiale. Solo in Gran Bretagna negli ultimi vent'anni sono state acquistate all'asta sue opere per la cifra di 130 milioni di euro.

Il Perugino, al di là dei lavori, dei viaggi e delle committenze a Roma, Firenze, Venezia o nelle Marche, ebbe sempre bottega in città: era perugino e amava Perugia. Burri, che studiò e lavorò sempre a Perugia, al di là delle mostre in giro per il mondo, da Parigi a Chicago a New York, visse a lungo a Città di Castello, 45 minuti di macchina da Perugia, e adorava il Perugia: quando giocava in casa era sempre allo stadio, e non solo negli anni dei miracoli di Ilario Castagner.

Il Perugino, almeno a leggere le Vite di Giorgio Vasari, ebbe carattere ombroso, personalità forte e una fama negativa per secoli. Burri, da parte sua, solitario e silenzioso, dopo che fu catturato in Africa nel maggio 1943 e passò 18 mesi nel «criminal camp» di Hereford, Texas, tra i fascisti «irriducibili», non ebbe buona fama per molto tempo da noi.

Per il resto il Perugino e Burri entrambi artisti contemporanei, perché tutta l'arte è contemporanea - sono così distanti fra loro, in ogni cosa, che provare ad accostarli, legandoli con il loro colore qualificante, il nero, può dare vita a una mostra splendida. Questa. Titolo: NERO Perugino Burri, da un'idea della Fondazione Perugia in collaborazione con la Fondazione Burri, curata da Vittoria Garibaldi e Bruno Corà, e allestita al piano nobile di Palazzo Baldeschi, affacciato su corso Vannucci, nel centro di Perugia. Venti quadri, dieci di Perugino e dieci di Burri, due per ogni sala, affiancati, spazi ampi e luci perfette, come dentro enormi cubi neri, e una domanda che fa da fil noir. Come si può usare, esaltandolo, il colore nero in pittura?

La risposta, solo parziale, è di Bruno Corà, uno dei due curatori e Presidente della Fondazione Burri: «Il nero è pieno di possibili valenze simboliche. È un colore azzerante e difficile da usare, capace di isolare qualsiasi forma o immagine che gli sia avvicinata, così come la può rendere emblematica. È un colore che tocca il sentimento in profondità».

Si parte da una piccola tavola, una Madonna col Bambino e due cherubini che si stagliano su uno sfondo completamente nero, che il Perugino dipinge nel 1497, conservata proprio nella collezione permanente di Fondazione Perugia. E si chiude con un dittico di Burri, Nero e Oro, del 1993, un lavoro assoluto, da cui tolse tutto, realizzato poco prima della morte.

L'opera al nero. La nigredo. L'alchemica terra nera: «al-kimiya». Il Grande Nero, il nero perfetto, il Quadrato Nero. Il celebre immenso ciclo di Burri «Non Ama il Nero». Il nero che è tutto fuorché un non-colore. «Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera» (Goethe). Tutte le sfumature del nero.

Esempi di accostamento. Il Ritratto di Francesco delle Opere (1494) e Catrame (1949), dove la distanza di mezzo millennio si annulla nello stesso uso del colore e delle forme. Il nero del basco e della giacca, la camicia rosa e il colletto bianco da una parte; il rosso di cadmio, il nero d'avorio e il bianco di zinco in un olio 57x64 dall'altra.

Oppure. L'Imago pietatis della cimasa della pala dei Decemviri (1495): il Cristo bianco cadaverico con le braccia stese e i palmi rovesciati su sfondo nero da una parte; il trapezio rovesciato su sfondo nero e bianco di un fantastico Rosso (1953) dall'altra: è un olio composto da una stoffa (forse una tunica) su tela che Burri volle fosse esposto al proprio funerale, per dire la valenza sacra dell'opera.

O ancora. Il Ritratto di giovinetto (1495-97), casacca scurissima con le maniche sganciabili, secondo la moda dell'epoca, con i tagli circolari bianchi, su sfondo nero, da una parte; e un Ferro del 1958, un nero monocromo totale con due saldature circolari bianche, dall'altra.

Il Perugino e Burri sono due artisti impensabili da affiancare. Se non che entrambi hanno cercato, nella loro opera, la medesima idea di perfezione. L'equilibro delle forme e del colore nello spazio della tela. E per il resto non rimane che completare la conoscenza dell'uno e dell'altro, muovendosi di appena cento metri nel caso del Perugino, di pochi chilometri nel caso di Burri. Qui di fronte, alla Galleria nazionale dell'Umbria, è esposto più di un capolavoro del primo. A Città di Castello, tra Palazzo Albizzini e i maestosi Ex Seccatoi del Tabacco, scorre l'opera omnia, dal 1948 alla morte, del secondo.

E, dovendolo fare, si fatica a scegliere.

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