Dudamel seduce con il fracasso

Lorenzo Arruga

L’anima di Gabriele d’Annunzio aleggia sulle redazioni milanesi di qualche quotidiano, quando dirige uno dei giovani inesperti e talentosi promossi al rango di direttori alla Scala. Dudamel soprattutto. Piace, entusiasma, tanto che, pur dovendo fare delle riserve sull’immatura sua discontinuità nella Terza Sinfonia di Mahler, in apertura di stagione della Filarmonica, ecco i critici musicali della città tentare lo stile dell’Immaginifico: uno vede il Nostro «trasfigurato», un altro vede la lunga sinfonia trasformata in «un ciclope», quasi che avesse un occhio solo; e in groppa Dudamel che «lo cavalca». Gli eccessi piacciono, in tanta generale piattezza.
E ci si può anche intenerire al lancio di fiori dalle gallerie, tutti uguali e giallini, che fa parte evidentemente dell’organizzazione. Ma, guardato con due occhi ed ascoltato con due orecchie, Dudamel mostra ancora più buona volontà che capacità di concludere. Il suo gesto non ha ancora la qualità dell’anticipo, arriva sempre assieme o poco dopo il suono, come se mimasse per cui soprattutto i fiati sono spesso sfasati; fa suonare quasi tutto sempre forte o fortissimo, a costo di avvilire con la violenza dei corni e degli ottoni in genere, prescritti piano, la voce non molto risonante del contralto Christianne Stojin. Piace, forse, perché incarna con vero talento i miti dell'ascoltatore medio d’oggi: la giovinezza che affronta il mondo e lo seduce, e il far fracasso. Ma la tragica malinconia di Mahler, che si snoda in una linea inarrestabile e struggente, mi sembra lontana dalle sue corde, e ho paura che il lavoro con l’orchestra sia forse eccitante ma anche un po’ accomodante. Comunque, prosit.
Al versante opposto, per gusto, per esperienza, per dominio intellettuale impareggiabile, Pierre Boulez sullo stesso podio un paio di giorni dopo ha chiuso i concerti di Milano Musica. Maestro geniale conclamato da generazioni, ha presentato un piccolo percorso nel repertorio più articolato e più secco dell’ultimo secolo, dalla suite dell’Histoire du Soldat di Stravinskij, a un suo pezzo qualche anno fa e continuamente riveduto, Dérive, a Streets, d’un allievo francese d'origine italiana, Mantovani. Con lui, il fido Ensemble InterContemporain, un manipolo di giovani vestiti come se fossero stati chiamati d’urgenza all’ultimo momento, concentratissimi e d'un virtuosismo antiesibizionista sbalorditivo. Streets impone con lucidità movimenti guidati da diversi strumenti, si fa ascoltare senza cadute di tensione, può infuriare sulla stessa nota o sull’acuto suono ligneo d'una fitta percussione senza che ne venga mai meno la ragione. Dérive è un intrico di articolazioni innumerevoli, che la mano del maestro disegna con fantasia ritmica infallibile, e offre una trasparenza stupefacente.

Rispecchia, in fondo, la nostra condizione esistenziale: attratti in risonanze comuni, in oscillazioni coincidenti, lasciati continuare nelle proprie solitudini. Un amante del moderno e del vero non può non desiderare di entrare in quel magistrale, estesissimo labirinto; ecco, può forse desiderare di uscirne un po’ prima della fine.

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