È uno dei banchieri che contano in Italia. E non ha dubbi: «Questa volta il governo Berlusconi avrà un atteggiamento più pragmatico nei confronti delle banche: non ci sarà uno scontro aperto. Anche se una qualche forma di inasprimento fiscale ce la aspettiamo e siamo pronti a subirla». Il governo Berlusconi non si è ancora formato, ma tra le poche sicurezze c’è quella di Giulio Tremonti all’Economia. Che nel passato aveva intrecciato una battaglia al calor bianco con le potenti Fondazioni bancarie. Oggi Parmalat e Cirio sono alle spalle, ma sul tavolo del ministro ci sarà il corposo dossier sulla crisi dei mutui. E le Fondazioni hanno tra le mani uno strumento rinnovato, proprio da Tremonti, la Cassa depositi e prestiti.
«È difficile che su contratti regolarmente stipulati tra privati, si possa fare un granché» dice il nostro interlocutore. Ma è pur vero che l’associazione dei banchieri, l’Abi, ha tutto l’interesse a non chiudere una porta in faccia al nuovo esecutivo. Il suo presidente, Corrado Faissola, per cultura non è certo ostile al milieu elettorale vincitore. E deve affrontare un «problema reputazionale» che continua a pesare sul sistema bancario italiano. Un tavolo di confronto banche-governo, studiare un eventuale intervento del Fondo di garanzia: ipotesi di collaborazione, su base volontaristica, non mancano.
Oltre alla questione mutui c’è un secondo possibile nodo da sciogliere per facilitare il rapporto banche-nuovo governo: e si chiama banca del Sud. «È un progetto sbagliato - dice il nostro banchiere -. Non ha un senso industriale e soprattutto, come mostrano i casi di aggregazione italiani, spostare la testa delle banche dalle zone ad alta infiltrazione criminale, ha un impatto positivo». In effetti la scomparsa di banche al Sud non ha portato, fino ad oggi, ad una diminuzione del credito in questa area del Paese. Al contrario, secondo i dati Abi, gli impieghi al Sud sono cresciuti del 14%, contro una media nazionale del 12. La banca del Sud non gode certo dei favori dei nostri banchieri, ma si ritiene che essa alla fine non vedrà la luce.
Resta il tema fiscale, da cui siamo partiti. Una tentazione che il nuovo governo potrebbe assecondare, nonostante la promessa di una generale riduzione del carico tributario su cittadini e imprese. Le banche, l’anno scorso, hanno generato utili prima delle tasse per 30 miliardi di euro. Un boom che potrebbe accendere gli appetiti di un governo che sin da subito avrà bisogno di risorse per finanziare l’abolizione dell’Ici e altre misure di razionalizzazione fiscale. A favore della resistenza bancaria ci sono due aspetti che potrebbero (le banche si augurano) bloccare l’iniziativa. Il primo è il rispetto delle normative comunitarie. Il governo Prodi aveva cercato di non allargare agli istituti di credito la riduzione del cosiddetto cuneo fiscale. Ma la Ue li ha riportati a più miti consigli, per una sorta di par condicio fiscale sulle imprese: non si può avvantaggiare fiscalmente un settore e specularmente peggiorare la condizione relativa di un altro. Ma c’è un altro ostacolo più sottile. Il piano di investimenti in infrastrutture avrà bisogno di un pesante intervento finanziario anche da parte del sistema bancario italiano. In questo senso il finanziamento delle grandi opere avrà bisogno di banchieri disponibili a mettere mano al portafoglio e non troppo indispettiti da inasprimenti fiscali estemporanei.
I banchieri che in fila si sono recati (con poche eccezioni) alle primarie del centrosinistra, sanno che pagheranno un prezzo al nuovo governo. Ma rispetto al passato il fronte bancario è meno compatto. Il presidente dell’Abi è stato rieletto con la vistosa opposizione di due banchieri vicini al centrosinistra come Abete e Profumo. Alla guida di Mediobanca è arrivato Geronzi che ha un rapporto trasversale con la politica e ottimo con il futuro premier.
Nicola Porro
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