E Giono cantò il mondo dell'estate perpetua

L'incantesimo della natura e della luce nel capolavoro dello scrittore francese "purgato" per il suo pacifismo

E Giono cantò il mondo dell'estate perpetua

In uno dei momenti più belli del libro, "Antonio dell'isola delle Ghiandaie" fissa le stelle. Non riesce a dormire, eppure "su tutta l'ampiezza del cielo e della terra regnavano una pace e una mitezza che annunciavano il giorno". Gli si fa al fianco un mandriano. Insieme, danno i nomi alle costellazioni. Quelle, disse Antonio, io le chiamerò la ferita della donna. Le chiamerò così perché fanno come un buco nella notte". Il mandriano offre ad Antonio il suo mantello; è freddo "per te che resti fermo a guardare la notte". Antonio continua a enumerare le stelle, a inventare i nomi. Un grumo di luci, a est, "le chiamerò gli occhi. Perché credo che siano come lo sguardo di colei che sta dormendo e non ha ancora aperto le palpebre". È una scena straordinaria, potremmo trovarla nella Teogonia di Esiodo o nell'Esodo, nei primi libri dell'uomo, epopee di stelle e di grandi cacce, di duelli e di imperi d'erba, di genti selvagge e di domestiche bestie, di briglie e di imbrogli. D'altronde, il compito di uno scrittore non è altro: assemblare i nomi, assegnare miti alle stelle. Un libro è come una stele. Così, il cosmo informe dà forma a una cronaca e dal caos si caglia armonia.

Jean Giono pubblica Le chant du monde nel 1934, per Gallimard. Diceva di aver tratto quel titolo che è poi un incanto, un incantesimo da Walt Whitman; amava Melville, di cui avrebbe tradotto Moby Dick; più che altro, l'incarnato del romanzo, il più potente di Giono (ora, nella sgargiante traduzione di Leopoldo Carra, per Settecolori come Il canto del mondo, pagg. 300, euro 26) è omerico. Ambientato in un senza tempo da inizio e termine del mondo, tra età dell'oro e apocalisse, Il canto del mondo parla di razzie e di vagabondaggi, di fuochi e di fiumi, di patti d'amicizia e di atroci vendette, di terra e cielo, di amore e morte. La scrittura di Giono è armata di uno splendore petroglifico, si sente, in sottofondo, un ritmo di tamburi (ascoltate: "All'alba le bestie vennero avanti. Antonio vide uscire dalle ombre a occidente i tori con le corna a lira. Spuntavano dai pascoli all'imbocco della valle, e subito il sole nascente si posava sulle loro fronti"), una limpidezza nuova, che non ha lignaggio né trama d'eredi. Mescolando Stendhal all'Epopea di Gilgamesh, Jean Giono ha portato il romanzo, creatura di città, nei boschi, a far leggenda tra gli acquitrini. In questo libro mai così sconfinato appaiono le "uldre" e il "grongo", "un pesce che assomiglia al serpente"; c'è il sesso e l'assassinio; c'è un sentore di sangue che rintrona la mente, che non dà pace.

Non bello ma volitivo, occhi grandi, di creatura d'acqua dolce, Jean Giono nel '34 andava per i quaranta. Figlio di umile gente il padre era un ciabattino, anarchico, originario del Piemonte era nato nel 1895 a Manosque, in Alta Provenza, e fece di quel borgo fondato dai Celti, abitato dai Romani, saccheggiato dai Saraceni il proprio eden. Avrebbe dovuto impiegarsi in banca, leggeva, nel tempo libero, Tacito, Seneca, Virgilio, Eschilo; il successo del primo libro, Colline (edito da Grasset nel 1929), gli permise di alienarsi dal mondo, di mollare la banca, di allearsi alla scrittura. Mobilitato durante la Prima guerra, ne uscì sconvolto: sperimentò l'imperio della macchina, il massacro privo di cavalierato, la canaglieria degli Stati. Fu sui campi più duri si fece Verdun, la Somme, lo Chamin des Dames assistendo alla morte degli amici. Sulla rivista Europe, proprio nell'anno in cui pubblica Il canto del mondo, Giono scrive Refus d'obéissance, uno degli inni più potenti contro il militarismo. Scrive "di non aver ammazzato nessuno" durante la Prima guerra, di aver "partecipato agli attacchi senza fucile o con un fucile inutilizzabile". "Non ho avuto il coraggio di disertare", scrive. Poi l'onda d'urto di quello straziante j'accuse monta: "Ho annusato l'odore dei morti. Ho mostrato corpi in frantumi. Ho riempito le stanze di fantasmi lordi di fango, con le orbite succhiate dagli uccelli. I feriti gemevano sulle mie ginocchia. Quando ho detto mai più tutti, in coro, hanno ripetuto no, no, mai più. Ma il giorno dopo riprendevano posto nel reggimento civile borghese. Ricominciavano a creare il capitale per il capitalista. Erano meri strumenti della società capitalista". Giono attacca l'ipocrisia del "regime borghese", il sistema coercitivo del lavoro cittadino, "ideato per assopirci, per instillare in noi uno spirito di schiavitù".

Agli albori della Seconda guerra, l'ardore pacifista di Giono fu preso per tradimento: lo scrittore fu arrestato nel settembre del '39; rilasciato, si ritirò nella sua fattoria. Durante Vichy diede rifugio a transfughi ebrei e a comunisti; le riviste di regime il periodico nazista Signal, ad esempio parlarono con curiosità del suo "neoprimitivismo". I resistenti non gli perdonarono di aver pubblicato un paio di racconti su La Gerbe, il giornale collaborazionista: prima cercarono di ucciderlo piazzando una bomba, nel gennaio del '43, davanti a casa sua poi lo arrestarono dal settembre del '44 al gennaio dell'anno dopo infine lo processarono; il Comité national des écrivains gli impedì di pubblicare per un paio di anni. Giono scrisse L'ussaro sul tetto e L'uomo che piantava gli alberi, i libri per cui è più noto, nei primi anni Cinquanta. Nel 1965 Marcel Camus trasse una versione cinematografica da Le chant du monde passata in Italia con il titolo, assurdamente hard, Ossessione nuda con Catherine Deneuve nel ruolo di Clara, la donna dai "grandi occhi di gesso e di menta", la tanto amata. Giono morì cinque anni dopo, nella sua dimora, a Manosque, in pieno estro verbale (L'Iris de Suse era uscito da poco).

Per capire l'importanza di Jean Giono basta sfogliare il catalogo della Pléiade: otto tomi, di cui sei dedicati alle uvres romanesques complètes. A differenza degli "esistenzialisti", Giono il cui talento è d'altro conio, più puro, di quello di Albert Camus ha cantato la brutalità della gioia, le glorie della carne.

Amato da Henry Miller che lo insediò tra i pochi, grandi scrittori della sua vita è l'esatto opposto di Céline che lo sopportava a tratti. Se uno è il cantore della notte e dell'oscurità, l'altro lo è della luce. Jean Giono è lo scrittore dell'estate perpetua, dell'avventura totale, dell'elemento primo, di preistorica eloquenza. Non ammette lettori vili.

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