E il giovane Guareschi si laureò a pieni voti all’università dell’ironia

Una mostra sui primi passi del Giovannino disegnatore e sui suoi grandi maestri

La galleria San Ludovico, la Biblioteca Palatina, il Castello dei burattini, il Convitto nazionale Maria Luigia. Questi i luoghi di Parma dove, fino all’1 giugno (sede principale San Ludovico, dalle ore 10 alle 19, chiuso il martedì) si può visitare la mostra «Guareschi, nascita di un umorista», a cura di Guido Conti e Giorgio Casamatti. Un percorso lungo quindici anni, dal 1920 al 1935, durante il quale Giovannino Guareschi, da «ginnasiotto» formidabile, arriverà a essere capocronista alla Gazzetta di Parma, prima di salpare per Milano, dove avrebbe incontrato fama e fortuna.
Guareschi umorista nasce dunque a Parma? Ebbene sì. E nasce proprio al Convitto Maria Luigia, dove suo istitutore è un tale Cesare Zavattini il quale, pur apprezzando l’intelligenza vivace del giovane, ne lamenta l’eccessiva propensione allo scherzo, la facilità alla battuta di spirito, l’indisciplina cronica. Salvo poi farsi ritrarre, proprio insieme a Giovannino, mentre con atteggiamento fintamente spietato punisce un allievo colpevole di chissà quali nefandezze.
L’umorista Guareschi, il celeberrimo vignettista inventore dei trinariciuti, delle vedovone, degli improbabili sovrani degli «Stati piccolissimi», trae le proprie origini dalla Parma degli anni ’20 e ’30, dai numeri unici goliardici, dalle riviste di satira che, pur sotto il regime fascista, si andavano affermando sulla scia di una cultura che datava dalla metà del 1800. Poco propenso a frequentare l’università, Giovannino prova mille mestieri: scenografo, xilografo, cartellonista, custode di depositi da biciclette, portinaio in uno zuccherificio. Non riuscendogliene bene nessuno, inizia a scrivere e disegnare, prendendo il grave vizio di lavorare per vivere.
Dalla sua penna, dalla sua sgorbia che incideva il linoleum iniziano a prendere forma le vignette che avrebbero trovato spazio su Bazar e gli altri fogli satirici, tutte rigorosamente ambientate nella sua Parma, in quella città dalle mille contraddizioni, dove al caffè «della Legione» si poteva chiacchierare con Attilio Bertolucci, Pietrino Bianchi, Carlo Mattioli, Erberto Carboni, Latino Barilli (tanto per citarne qualcuno) e dove, a poche centinaia di metri, nell’Oltretorrente, ciabattavano i sandali scalcagnati di Padre Lino Maupas, che aveva appena rubato una pagnotta e uno scampolo di formaggio dalla mensa del convento francescano per portarla a una ragazza madre disperata, che non aveva di che sfamarsi per allattare il proprio piccolo.
Sono immagini taglienti quelle che Guareschi incide o disegna in quegli anni, a partire dalla sua autocaricatura dinanzi alla casa di Borgo del Gesso, accanto alla fida bicicletta, munito degli inseparabili knickerbocker. Giovannino che ritrae la gente bene di Parma, ma anche i popolani e i rappresentanti delle istituzioni con i vizi e le virtù di una città di provincia che giocava a crescere con il retaggio della petite capitale dell’arciduchessa d’Austria, Giovannino che si diverte a immaginare la «Parma del 2000», con i monumenti arrampicati su una sorta di torre di Babele a chiocciola, circondata da teleferiche, aeromobili e incredibili oggetti volanti d’ogni sorta. Disegnatore satirico, brillante vignettista, ma già anche giornalista e, innanzitutto, scrittore che, nel 1929, con la novella Silvania dolce terra, viene premiato dalla Voce di Parma con questa motivazione: «Presentiamo ai lettori la novella vincitrice del nostro concorso. È di quel genere umoristico che incontra ora tanto successo e che ha per massimo esponente Campanile. È una novella che si legge con piacere e senza stanchezza.

Siamo certi che anche il pubblico sarà del nostro parere».
Un bel complimento davvero, per un ventenne che si destreggiava con la penna e la sgorbia. Una cambiale sul futuro che Guareschi avrebbe incassato da lì a sei anni o poco più.

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