E Moggi piange: «Il calcio non è più il mio mondo»

Ha seguito il match alla tv nell’ufficio del presidente del Bari: niente champagne, solo un bicchier d’acqua

Riccardo Signori

nostro inviato a Bari

Moggi al Quirinale. Lo dice va uno striscione. Lui ci ha creduto e non ha perso l’occasione: davanti a reti Tv calcistiche unificate ha dato l’ultima benedizione e finalmente una notizia a cui credere. «Me ne vado. Mi dimetto. Il calcio non è più il mio mondo. Ora penserò solo a difendermi da tutte le cattiverie». Benedizione di un diavolo con la lacrima sul viso, gli occhi di un bull dog bastonato. «Mi manca l’anima, me l’hanno uccisa». Niente di più per accompagnare uno stato d’animo, l’uscita dalla porta di servizio, la fuga dall’harem delle mille verginelle che solo ora hanno scoperto chi era il cattivone. Moggi, quello di ieri, non era il diavolo. Solo un uomo sconfitto, un dirigente bruciato, un abbonato telefonico in attesa di giudizio. Ha accompagnato la squadra fino all’ultimo: aereo, albergo, pullman. Poi ha visto la partita nello stadio San Nicola, non in tribuna d’onore (sarebbe stonato) ma nell’ufficio del presidente del Bari: primo piano, megavideo, bicchier d’acqua fra le mani anziché calice di champagne. Sofferenza goduta, per l’ultima volta, con Giraudo e Bettega. Triade fino alla fine. O fine di una triade.
Non c’è stata la solita passeggiatina sul campo prima dell’inizio partita: meglio evitare il cattivo gusto. Ma c’è stato il salto nello spogliatoio della squadra tra un tempo e l’altro. Poi un occhio alla festa sul campo, infine la stretta di mano con tutti: stavolta è finita davvero dopo 12 anni, 7 scudetti (lo saranno ancora fra due mesi?), una coppa dei campioni e una coppa intercontinentale, una vista calcistica a cavallo tra Napoli e Torino.. E mentre Capello si avviava a tener conferenza stampa in cui mostrare la faccia grintosa della Juve e dei suoi 109 anni di storia, Moggi si è preparato il discorsetto della sua autocrocefissione. «Nun c’è problema!». No, Lucianone, stavolta non c’è più Moggi. O forse quel Moggi che lavorava, sporco o pulito, per sé e per i suoi padroni, che tutti corteggiavano, veneravano, a cui si aggrappavano anche per raccogliere una briciola. Sono peggio loro. Lui sfruttava la situazione e la loro prostituzione.
Facile mollarlo così, sulla strada dei tormenti. «Oggi parlo solo io perchè non ho la voglia e la forza di rispondere», ha detto ieri prima del discorsetto. D’ora in poi risponderà solo ai giudici. «Ma il Moggi dirigente è eccezionale. Ve lo dico io. Gli sono amico e lo sarò sempre. Moggi avrà la mia stima». Cambia la scena del drammone e compare il grugno duro di Fabio Capello a tender la mano. Nel giorno dello scudetto tocca a lui celebrare uno scudetto che, per ora, c’è. Cambiare il passo di questa Juve assediata dai sospetti e forse da qualcosa di più. Berlusconi ha chiesto di avere indietro due scudetti. E Don Fabio, per una volta, sta all’opposizione. «Sono amico di Berlusconi, lo rispetto, ma stavolta ha parlato da tifoso». Capello difende due anni passati in testa al campionato. «Non si sta al comando 76 partite per grazia ricevuta. Il nostro scudetto è stato vinto sul campo con il lavoro, l’attenzione, la costanza, l’umiltà». Già, ma le intercettazioni dicono altro. Capello garantisce di non aver mai tenuto l’orecchio sul telefonino di Moggi, di aver lavorato informandosi, studiando, raccogliendo dati per conto suo. Non vuol lasciarsi sporcare da qualche schizzo di fango, ma non può nemmeno negare che la realtà dica altro. C’è chi parla e non sparla. Ed allora l’allenatore ha cercato la difesa più classica: catenaccio. «Ho letto le intercettazioni e mi sono fatto un’idea. Ho capito che il bersaglio numero uno, quello da colpire, siamo noi della Juve e soprattutto Moggi. Sarà meglio attendere i giudizi, mentre invece leggo tanto, tante sentenze già scritte. Ho sentito gente che si tira fuori e questo non è bello per il calcio, non fa bene».
Capello è uomo di mondo, padre di un avvocato. Non può nascondersi la verità ed allora ammette che il suo giudizio potrebbe essere di parte. «Vero, il mio metro può essere diverso da quello dei giudici». Qualche anno fa, quando era il tecnico della Roma, era molto più vicino al sospetto svelato dalle intercettazioni. Ha avuto ragione per qualche verso, ma ora non può esultare. «Quando uno dice certe cose, evidentemente ci ha pensato». È un alzar le mani davanti a se stesso. Pronto però a rimboccarsi le maniche per uscirne. Resterà alla Juve. La risposta non ammette dubbi, anche per l’Inter. «Ho ancora un anno di contratto. Rimarrò.

Dipende dalla proprietà: toccherà a loro decidere. Contatti con l’Inter? Ne ho letto di ogni tipo». La palla passa alla famiglia Agnelli. Se lo vogliono, Capello è pronto. E con un ghigno sulle labbra. Continua a ripetere: «Aspettate a giudicare. Poi magari si riderà».

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