E nella culla della Padania il caffè si beve all’orientale

Barge (Cuneo)È diventato monopolio cinese il caffè espresso che si beve nei bar di Barge, piccolo comune cuneese tanto caro ai leghisti che ogni anno passano di qui per celebrare il rito dell’ampolla sul fiume Po. I due locali storici del paese, piazzati uno a destra e l’altro a sinistra dell’ingresso del palazzo comunale, sono di proprietà di un 24enne cinese - che si fa chiamare Davide - che sta già trattando l’acquisto di una terza caffetteria, nonché l’apertura di un mega centro benessere. Un unico proprietario del Sol Levante per sei dipendenti italiani che trovano così un lavoro sotto casa. «Non ho notato differenze tra Davide e i titolari precedenti - spiega la barman Francesca - anche perché la sua mentalità è simile a quella dei cuneesi, per i quali il lavoro è una priorità assoluta». Non è stato uno tsunami ma un’onda sinuosa ed avvolgente, l’arma utilizzata dagli emigrati dagli occhi a mandorla per conquistare questo paesello alle pendici del Monviso. In maniera silenziosa ma costante, ogni settimana degli ultimi 17 anni, un cinese si è sistemato a Barge. Su 7mila e 980 residenti, 879 hanno gli occhi a mandorla, anche se i dati della questura parlano di almeno un altro centinaio di irregolari. Una percentuale che supera il 10 per cento, e sale al 16,5 nelle scuole primarie. Un’invasione pacifica, tutta giocata sui toni bassi, che ancora non vince sui numeri ma stravince sul piano economico.
Oltre ai locali pubblici - venduti dai titolari precedenti per uno scarso giro d’affari - gli immigrati cinesi hanno messo il loro marchio anche sulle cave di pietra e la maggior parte dei laboratori di lavorazione di quarzite. Qui però nessun dipendente italiano: «É un lavoro troppo duro per i bargesi, preferiamo fare da noi», spiega Liu Meilan, a Barge da tre anni e punto di riferimento per la sua comunità d’origine. Sempre in movimento, con un sorriso che conquista, Liu, unica cinese che in 17anni di immigrazione si è sposata un bargese, è la «business-woman» che ha gestito l’acquisto dei bar, poi intestati al figlio.
Liu, com’è avere un dipendente italiano? «Noi cinesi - spiega - siamo più diligenti, abbiamo più voglia di imparare e non ci spaventano gli orari lunghi». Lei non conosce il ruolo dei sindacati in Italia e seraficamente spiega: «Le mie dipendenti sono come figlie per me, non hanno bisogno di tutele esterne, ci penso io». In tre anni questa donna tutto pepe ha investito su un piccolo paese di montagna oltre 600 mila euro, pagati - si mormora - in contanti senza batter ciglio. Del resto non esistono in Italia depositi bancari a nome di cittadini cinesi ed è loro abitudine pagare in contanti senza contrattare sul prezzo.
Tre i negozi di alimentari «made in china», numerose le case ed i terreni acquistati. Dal 2004 ad oggi sono 14, ossia due all’anno, le licenze richieste ed ottenute dal Comune per aprire attività di lavorazione pietre, ristrutturare case ed ampliare locali. Gli intestatari sono però solo 5. Tra i professionisti coinvolti nelle attività cinesi anche l’ex sindaco di Barge, primo testimone dell’arrivo dell’onda gialla in paese, a metà degli anni ’90. Barge ha sicuramente tratto benefici, dal punto di vista economico, dalla trasformazione del paese in una «Chinatown» seconda in Italia solo a Prato. Ciò nonostante il loro modo di vivere dà fastidio a molti. Per rendere la convivenza più pacifica il Comune cerca di disciplinarne la quotidianità a colpi di ordinanze: dal divieto di sputare per terra al veto di salire sui monumenti, sporcare le vie cittadine o lasciare i bimbi soli per strada.

«Ogni anno sono sempre più preoccupato - sottolinea il giovane sindaco Pdl Luca Colombatto -. Con il loro profilo basso i cinesi stanno attuando una conquista economica silenziosa ma capillare che farà di loro i conquistatori dell’Occidente. E a noi non resterà che obbedire».

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