Dunque ora entrano alla Ca’ d’Oro due prostitute? Due donne di mondo? Vengono da scuole ed epoche lontane e alloggiano in una stessa casa, nel centro Italia. Ne ho avvertito la consonanza.
Due donne giovani, assorte nei loro pensieri, con il capo lievemente reclinato. L’una è il prototipo della prostituta, la Maddalena, tiene in una mano un vaso con gli unguenti per carezzare il corpo di Cristo in un estremo rito di amore prima che di pietà; ma guarda il suo vaso come fosse un’urna con le ceneri dell’amato. In quel dialogo con ciò che resta di lui, nulla manca, e per questa concentrazione possiamo dire che la tavola dipinta non è tagliata e la misura della donna è perfettamente inquadrata nello spazio che il pittore ha immaginato con l’apertura verso un cielo illimitato «a strati densi e pur tenui, dal bigio al viola all'ocra leggero».
L’altra giovane donna, elegante, ben truccata, indossa una tunica leggera con due spalline e sopra uno scialle a larghi fiorami turchini su un fondo bianco; tiene le braccia consorte, e ci fissa con intenzione, con determinazione. È compiaciuta, soddisfatta, certa del suo fascino, pronta a dare per avere, senza ipocrisia. Ecco ora le due donne alla Ca’ d’Oro poco lontano dal dolente e gaudente Sebastiano che, nell’estremo supplizio, ci ricorda che Nihil nisi divinum æternum; coetera fumus. Non ne sembrano convinte le due giovani che hanno iniziato a occupare il loro spazio nella bella casa.
La Maddalena torna a Venezia dopo 56 anni. Era stata esposta, con il nome del maestro nella mostra Giorgione e i giorgioneschi in Palazzo Ducale, nel 1955. Un coro di uomini virtuosi aveva accolto il suo ingresso nel sontuoso Palazzo e nella storia dell’arte. Il primo ad averla ammirata e delibata fu Roberto Longhi già qualche anno prima. Poi convennero Wihelm Suida, Giuseppe Fiocco, Pietro Zampetti. Altri studiosi, con lievi smorfie, pensarono al Carpaccio, l’autore delle indimenticabili Cortigiane, tanto evidentemente distanti nel loro malmostoso cattivo umore dalla riservata malinconia della Maddalena. Dopo il breve soggiorno veneziano la donna si ritirò nelle stanze della sua casa fino a oggi, non senza aver ricevuto alcuni rari e convinti amici, come l’olimpico Carlo Volpe, come il contorto Alessandro Ballarin e come l’innamorato esotico W.R. Rearick, concordi nel riconoscerne l’identità e la bellezza. Da ultimo, e con sentenza definitiva, Mauro Lucco, che intese sigillare il suo giudizio come perito del Tribunale di Firenze, aprendo la strada alla notifica dello Stato, compilata da Giovanni Agosti, che nel 1995 stabilì che la Maddalena era opera certa di Giorgione, e anzi la più antica fra quelle fin qui superstiti a noi note.
Questa agnizione formale da parte dello Stato ci consente di esporla, benché privata, in un museo statale quale è ora la privatissima dimora di multiformi piaceri di Giorgio Franchetti. La Maddalena trova una sorella nella conclamata Giuditta dell’Hermitage di San Pietroburgo, ed è utile richiamare la notazione del Lucco che propone per la Maddalena una «appartenenza etnica orientale, ebraica, alla quale fa evidente allusione anche la fascia a righe sulla fronte... un segno distintivo degli ebrei e comunque di persone ai margini della società come le prostitute». Verremo indagati per aver aperto le porte della Ca’ d’Oro a questa donna di facili costumi, benché pentita?
La sua occasionale compagna ha superato l’ora del pentimento; ed è una bella idea di Gio Ponti per una variegata serie eloquentemente denominata Le mie donne, esibite in un ambizioso padiglione della Richard Ginori alla prima Biennale di Arti Decorative di Monza nel 1923. È una terraglia a gran fuoco modellata dallo scultore, allievo di Adolfo Wildt, Gigi Supino.
Lei non è pentita, non si pentirà.
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