E se il nuovo McCarthy fosse europeo? Allora il suo nome sarebbe Cynan Jones

Potremmo essere un epoca (forse davvero la prima) priva di epica. Almeno in letteratura. L’epica, infatti, ci infastidisce, ci appare ingombrante con la sua serietà così poco postmoderna, con il suo essere un qualcosa che difficilmente si presta al pastiche, al citazionismo, all’intimismo. L’epica è stata rinchiusa al cinema e nella letteratura di genere, spazzi più «bassi», che piacciono alla gente ma non disturbano il critico e l’intellettuale, non lo costringono a farsi venire il mal di testa per decidere se è possibile scrivere un libro facendo sul serio e senza guardarsi l’ombelico.
Al discorso fatto sino a qui fa eccezione un giovane autore inglese (classe 1975): Cynan Jones. Arriverà a breve in Italia il suo secondo libro Le cose che non vogliamo più (Isbn, pagg. 174, euro 17) e nelle sue pagine tutto è epico, terribilmente serio. Non immaginatevi, per carità, che tra le righe scorrazzi il cavaliere senza macchia e senza paura, o che ci siano facce dure da film western. Siamo in una piccola località della costa inglese e incrociamo le storie normali dello spazzino Alan, la cui vita sta finendo al macero, del suo collega Callum, che sogna un riscatto a colpi di bigliardo. Jones le cucina assieme ai sogni e alle disillusioni della piccola umanità che ruota loro attorno (Fiona la moglie in fuga di Alan, Suzie la cameriera della tavola calda che ama il silenzio delle piscine, Ben che rimpiange la vita dei pescatori...).
La differenza però è tutta nella modalità narrativa: le vite di questi personaggi sono passate al microscopio, raccontate con primissimi piani degni di Sergio Leone, facendo sentire il peso del destino, il peso delle cose microscopiche che cambiano il fato di ognuno e producono piccole o grandi sconfitte. Per usare le parole di Jones - dopo che Callum si gioca, quasi con sollievo, la sua futura carriera di giocatore di biliardo a causa di una spina di pesce ragno che gli impedisce di disputare la partita della vita - l’attenzione è tutta su: «Le volte che non balliamo le occasioni che non afferriamo le scelte che non facciamo le abitudini che non riusciamo... le verità che non vogliamo le conseguenze che non sentiamo... le cose che smettiamo di fare gli oggetti che scartiamo».
Elencate così d’un fiato e senza virgole, raccontate tutte a colpi di metafore dove la materia si piega a descrivere gli stati dell’anima in maniera quasi omerica, in una prosa che sembra la marea quando trascina al largo le cose. Non leggerete mai la parola tristezza, leggerete: «Scie di grigio sporco si mescolano alle gocce che cambiano angolazione, mentre l’autobus accelera allontanandosi dalla città, sfrecciando nel caos». Non leggerete tradimento, leggerete: «La sua borsetta nuova aveva un fermaglio a forma di cuore luccicante che la faceva sembrare una cosa da ragazzina. Ci aveva messo ore a prepararsi. Poi era uscita».
Insomma la realtà passa attraverso la materia e torna ad essere anima un po’ come se Cynan Jones fosse un Cormac McCarthy europeo. E se il suo primo bellissimo romanzo La lunga siccità (Isbn) anche nella sua ambientazione agreste poteva far riferimento direttamente alle narrazioni di McCarthy o di Breece D’J Pancake, in quest’ultimo romanzo quella che resta è soprattutto la modalità narrativa, davvero insolita per questa sponda dell’Atlantico.
Insomma il neowestern ha preso casa in Europa, almeno per quanto riguarda la possibilità di riscoprire il lato epico assoluto dell’esistenza e farne letteratura.

Forse se ne accorgeranno in pochi perché questi romanzi, pur nella loro brevità, pesano enormemente e costringono a pensare senza per questo essere spendibili nella conversazione da salotto. Ma pazienza a volte le cose che contano, ha ragione Jones, sono proprio le cose che non vogliamo più: «Non è colpa di nessuno».

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