Ebbe una vita insipida e troppo sale in zucca

Il suo cervello era fuori dal normale in tutti i sensi Non mise piede a scuola ma era un genio quasi disumano. Che volentieri si torturava per evitare ogni piacere non intellettuale

L’enormità del suo cervello cui deve la gloria, fu all’origine della sofferenza fisica che lo rese bigotto fino a sfiorare il ridicolo.
L’intreccio fu scoperto dagli anatomisti che gli aprirono la testa dopo la morte. Con sbigottimento constatarono che il cranio non aveva altra sutura che la lambdoidea. Della sutura coronale non trovarono traccia. Quella frontale, invece, che nell’infanzia era rimasta aperta a lungo, come spesso accade a quella età - ma che nel suo caso non riuscì mai a richiudersi -, era stata sostituita da una callosità.
I medici osservarono che aveva una prodigiosa abbondanza di materia cerebrale, di una sostanza così densa che ritennero fosse questa la ragione per cui la sutura frontale non ebbe modo di saldarsi, cosicché la natura aveva rimediato facendo crescere la callosità. Trassero quindi la conclusione che a provocare le emicranie cui il defunto fu soggetto in vita fosse l’eccesso di materia grigia.
Il Nostro fu precocissimo. Rimasto orfano di madre a tre anni, il padre - giudice amministrativo di Clermont-Ferrand, poi esattore a Rouen - decise di educare personalmente il bimbo, che non frequentò mai una scuola. Applicò la regola di mantenere il fanciullo al di sopra di ciò che studiava. Perciò non gli insegnò il latino prima dei dodici anni, affinché lo affrontasse quando poteva dominarlo.
Presto, il ragazzo si rivelò versato nelle matematiche, ma il babbo lo frenava perché non precorresse i tempi. Un giorno lo trovò chino a terra che sviluppava calcoli sul pavimento con un gessetto. Gli chiese stupito che cosa facesse. L’undicenne rispose che aveva trovato una soluzione, che poi era la trentaduesima proposizione di Euclide. L’aveva ricavata senza averla mai letta. Il padre, basito, capì che era ingiusto ostacolare una simile mente. Si affrettò così a mettere a disposizione del figlio i libri scientifici che gli aveva fin lì nascosto in nome di una pedagogia che la genialità del giovanetto rendeva ridicola.
A 18 anni, per aiutare il padre a conteggiare le imposte, il Nostro inventò una macchina calcolatrice che, grazie a una patente regia, potè brevettare e offrire alla regina Cristina di Svezia.
La famiglia - ossia lui, il padre e le due sorelle - si era intanto trasferita a Parigi. Dopo un periodo di vita mondana, il ragazzo cominciò ad accusare terribili dolori di testa dei quali non si liberò mai. Una notte fece un sogno mistico ed ebbe una prima conversione religiosa. Da quel giorno - come scrisse la sorella maggiore, Gilberte Périer, nella biografia che dedicò al Nostro - «rinunciò a tutto per dedicarsi a Gesù». Tale fu la sua influenza sui familiari che la sorella più piccola, Jacqueline, si fece suora entrando nel convento di Port Royal, di tendenze gianseniste.
Lo zelo del neoconvertito lo portò a denunciare un teologo che, uscendo dal seminato dell’ortodossia, predicava una sorta di religione razionalistica. La Curia condannò l’incauto, il quale, però, non reagì contro il suo accusatore, quasi gli fosse grato per averlo ricondotto sulla retta via. Il pio giovane cominciò a occuparsi di Sacre Scritture. Abbracciò la teologia della Grazia di Sant’Agostino, secondo cui l’uomo non può salvarsi l’anima da solo, ma unicamente se predestinato da Dio. Si mise così in urto con i Gesuiti, più possibilisti e affetti - come scrisse il Nostro con ironia - da «benignismo». Una sorta di «buonismo» che mal si conciliava col suo severo rigorismo.
Nel frattempo, continuava a studiare e a soffrire indicibilmente nel corpo. Finché i medici gli imposero di chiudere i libri e di distrarsi. Riprese la vita mondana e iniziò a giocare d’azzardo. Con l’occasione abbozzò una teoria delle probabilità applicata alle carte e alla roulette. Ma non era questa la vita fatta per lui e, cedendo alle insistenze della sorella suora, vi pose termine. Fu questa la sua seconda e definitiva conversione.
Passò gli ultimi cinque anni di vita da autentico bigotto. Si privò di qualsiasi piacere, anche quelli del palato, rifiutando nei cibi salse e ragù. Non tollerava che i figli della sorella Gilberte carezzassero la madre, considerando nociva ogni tenerezza. Si proibì di affezionarsi a chiunque e respinse da sé l’affetto degli altri. Indossò sulla carne viva una cintura di ferro irta di punte e, se provava un qualsivoglia piacere, anche solo nella conversazione, dava uno strappo al cilicio per punirsi.

Gioì per la morte del padre e della sorella suora, dicendo: «Amo la morte perché separa un’anima santa da un corpo infermo».
Quando toccò a lui, ne fu lieto. Disse: «Che Dio non mi abbandoni!» e spirò. Aveva 39 anni.
Chi era?

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