Ecco come eravamo e come siamo diventati

A Venezia una selezione dell’archivio fotografico di Italo Zannier: ritratto di un’Italia recente che ricordiamo senza riconoscerla più

Ecco come eravamo e come siamo diventati

Venezia - A torso nudo, con su ancora i pantaloncini da corsa, Gino Bartali fuma nella camera d’albergo al termine di una tappa. C’è una bottiglia d’acqua Recoaro sul comodino, la carta da parati alle pareti, il materasso di crine a righe, le lenzuola appallottolate. Sul lettino a fianco c’è Fiorenzo Magni, in maglietta e mutande, una macchia scura sulla coscia destra, un livido, un grumo di sangue, la sinistra allungata sopra degli asciugamani. Mentre Gino si gusta la sigaretta, lui sta rispondendo qualcosa ai tifosi che affollano la stanza. Uno è in canottiera, un altro indossa una camicia bianca, del terzo si intravede la cravatta, ma non il volto. È una giornata d’estate del 1951 e nella foto di Giuseppe Palams c’è il ritratto di un’Italia che è esistita, ma di cui abbiamo smarrito i contorni e con essi il senso. Due campioni popolari, di uno sport popolare, a cui un’Italia popolare si avvicina senza filtri né barriere: uffici stampa, segretarie, security, manager, sponsores...

A torso nudo, i muscoli tesi nello slancio, un costume da bagno che sembra un corsetto, la cuffia in testa, il tuffatore è parallelo al mare che tra breve taglierà scendendo in verticale. Non è un professionista, anche se la perfezione del gesto atletico potrebbe farlo pensare. Mentre lui vola nell’acqua, lo scatto di Nino Migliori inquadra anche il compagno che lo ha preceduto e che ora sta seduto sul bordo del molo usato come trampolino, i capelli inzuppati, la testa china, a riprendersi dello sforzo per risalire dagli scogli e dalla tensione dell’impresa appena compiuta. È anche questa una giornata d’estate del 1951 e anche qui c’è il ritratto di un’Italia che è esistita, ma di cui abbiamo smarrito i contorni e quindi il senso. Le «distese estati» della poesia di Vincenzo Cardarelli, quella che raccontava «dei densi climi/ dei grandi mattini/ delle albe senza rumore/ dei giorni identici astrali,/ stagione la meno dolente/ d’oscuramenti e di crisi,/ felicità degli spazi»: quella della semplicità dei divertimenti, un decoro povero e quindi spartano, spartano e perciò povero...

Se una cosa racconta «Il furore delle immagini», la bella mostra a cura di Denis Curti che attinge dall’archivio di Italo Zannier (Venezia, Fondazione Bevilacqua La Masa, fino al 18 luglio, catalogo Marsilio), questa è la mutazione antropologica dell’Italia e degli italiani, il prendere atto della scomparsa di ciò che fino ancora un quarantennio fa era rimasto, fra Otto e Novecento, più o meno immutato: le stesse facce, al di là delle mode e delle acconciature, gli stessi luoghi, al di là delle costruzioni e del progresso, una sorta di identità solare eppure dura, malinconica eppure speranzosa, quasi intagliata nel marmo della vita e della storia. Un Paese ancestrale per un popolo ancestrale, dove l’eccesso di monumenti, rovine, natura e memoria sedimentato dal primo incombeva minacciosamente sul secondo eppure, quasi per magia, o per atavica sapienza, quest’ultimo in qualche modo riusciva ancora ad assoggettarlo, suo custode e insieme suo prigioniero. Una presa d’atto magari inconscia e certo non intenzionale, ma non è un caso se, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, ciò che l’esposizione raggruppa nelle due sezioni «Una sperimentazione continua» e «Verso una nuova estetica» vedano la scomparsa di un’identità e il moltiplicarsi di una realtà artificiale, come se chi fotografa prendesse atto che quel soggetto non esiste più e l’unica scelta possibile consista nell’interrogarsi sul mezzo tecnico, un po’ come quando nella poesia barocca del Seicento la forma si era trovata a sostituire la sostanza.
Torniamo da dove siamo partiti. Fra le due immagini degli anni Cinquanta, il ritratto di Guido Keller, «l’asso di fiori della pattuglia Baracca», e della futurista Wanda Wultz degli anni Venti, quello di Carlo Levi dei Sessanta, di Italo Calvino dei Settanta, ciò che impressiona è la sostanziale continuità. Al di là dei vestiti, sono intercambiabili, la macchina del tempo potrebbe trasportarli da un estremo cronologico all’altro e nessuno di noi lo troverebbe strano, nessuno di loro si sentirebbe estraneo. E lo stesso vale per le piazze assolate e le stradine strette di una Roma prima monarchica, poi fascista, poi antifascista, con il suo corteo di artigiani e di ragazzini, zingarelle e prelati, carabinieri e impiegati.

In un Paese che non ha più memoria, si impongono, per chi sia ancora in grado di far funzionare la propria, come un amarcord che supera il tempo biologico che ci è dato e permette di cucire il nostro passato a quello che lo ha preceduto, il letto dello stesso fiume dove come italiani per generazioni ci siamo bagnati. Solo adesso che è secco non ci riconosciamo più.

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