Ecco i diari inediti del Duca che sperò invano nel Duce

Dall’amore per il volo e per l’Africa coloniale alla speranza mal riposta in Mussolini come pacificatore d’Europa. Questi scritti rivelano molti "dietro le quinte".

Amedeo di Savoia, terzo duca d'Aosta e viceré d'Etiopia era così affascinante da essere soprannominato addirittura, nei salotti della buona società e dell'aristocrazia, il «Gary Cooper italiano». Che fosse di bell'aspetto è fuor di dubbio. Alto quasi due metri, il volto dai lineamenti regolari, il corpo temprato dagli sport, il portamento fiero ed elegante, Amedeo aveva tutte le caratteristiche per fare colpo nell'immaginario collettivo. Come se non bastasse, ad accrescerne il fascino c'erano l'allegria e l'ironia che talora si traducevano in scherzi memorabili e, soprattutto, c'era quel modo di comportarsi esuberante e tutt'altro che formale dava e si faceva dare del tu che ne denunciava la voglia di vivere e lo spingeva, al di fuori delle rigide regole protocollari, a correre in motocicletta o in auto, a sedersi nei caffè, a frequentare teatrini di avanguardia, a ballare il charleston o il fox trot, ad ascoltare, più che i concerti di musica classica, le canzonette in voga. Estroverso, ma sobrio e raffinato, non amava troppo la vita mondana ma non aveva cadute di stile di tipo populista. Incarnava, sotto un certo profilo, l'idea di una regalità moderna, legata alle tradizioni ma attenta all'evolvere della società.

In occasione dell'ottantesimo anniversario della sua morte avvenuta a Nairobi nel 1942, dopo la mitica difesa dell'Amba Alagi, è stato annunciato durante la celebrazione avvenuta allo Yacht Club di Genova del quale era stato presidente dal 1933 che ne verrà presto pubblicato il diario inedito. Si tratta di un documento, affidatomi alcuni decenni or sono dal duca Amedeo d'Aosta, di grande importanza storica non solo per una corretta conoscenza della biografia dell'eroe, figlio del «duca invitto» che aveva guidato la III Armata nella Grande Guerra, ma anche per chiarire aspetti controversi della storia più recente: un documento che, ora, grazie alla volontà e al permesso del duca Aimone di Savoia Aosta, diventerà presto fruibile per storici e appassionati.

Nelle pagine del diario si ritrova l'eco delle battaglie della Grande Guerra: Amedeo vi prese parte giovanissimo come soldato semplice, presentato dal padre ai superiori con poche parole: «Questo è mio figlio, soldato fra i soldati. Nessun privilegio». Combatté sul Carso, sul Sabotino, sul Piave e si guadagnò due medaglie al valore e la promozione a capitano d'artiglieria. Si ritrova, pure, nel diario, come motivo ricorrente, l'amore per l'Africa e la vita di colonia: l'11 ottobre 1926, poco dopo aver ricevuto da Mussolini il brevetto di pilota, egli, incerto se «staccare dalla colonia per l'aeronautica oppure no» annotò: «la più grande passione della mia esistenza è stata senza dubbio questa vita nomade di colonia, passione che nessuna donna è riuscita a diminuire. Essa è stata il sogno dei miei anni di bambino; quando vedevo i piroscafi che partivano non avevo altra idea che quella di potermici un giorno imbarcare. Oggi che vado per il quarto anno effettivo di colonia mi sento ancora più legato dalla folla di ricordi e dalla esperienza che mi sto formando».

Volle andare nel 1925 in Libia dov'erano in corso operazioni militari per contrastare la guerriglia che impegnava, da una parte, bande di arabi armate da turchi e potenze europee non entusiaste della presenza italiana in Africa e, dall'altra parte, indigeni libici prevalentemente di origine berbera favorevoli agli italiani. A differenza di Rodolfo Graziani che si comportava con mentalità spietata e metodi vetero-coloniali, Amedeo, il cui compito era quello di addestrare i meharisti alla guerra nel deserto, ebbe un approccio «umano» e poco «coloniale» nei confronti degli indigeni. Voleva comprenderne la mentalità, studiarne lingua e costumi, capirne la cultura, stabilire con essi rapporti di collaborazione e confidenza. Aveva, in fondo, egli, la stessa cupiditas sciendi dello zio Luigi, duca degli Abruzzi, la stessa ansia di conoscenza, la stessa vocazione di esploratore, lo stesso modus operandi. Ma aveva, anche, doti e personalità di un vero capo, di un ufficiale capace di captare il consenso, il rispetto e la fedeltà dei sottoposti con eloquio misurato e semplicità di gesti.

Non legò mai con Graziani, né all'epoca della Libia né in seguito. Molti passaggi del diario danno conto della diversità di vedute dei due, formalizzata in appunti inviati a Roma. Dopo l'attentato del febbraio del 1937 all'allora Viceré d'Etiopia e dopo la conseguente sanguinosa repressione, Mussolini decise che Graziani non avrebbe potuto più ricoprire la carica di governatore generale e suggerì come «l'uomo preparato, il migliore fra tutti» proprio il Duca. Graziani fece di tutto per rimanere in Africa almeno come consigliere militare e politico. Si presentò al Viceré dicendogli: «Altezza, desidero rimanere a sua disposizione per la mia conoscenza dell'Etiopia. Lei ha certamente bisogno dei miei consigli». Ma questi non volle saperne: «No grazie. Eccellenza. Intendo fare da solo. Se dovrò sbagliare preferisco sbagliare per conto mio». Del resto, con il ministro dell'Africa Lessona, Amedeo era stato esplicito: «Non voglio Graziani come comandante delle truppe. Se il duce lo esigesse, rinuncerei senz'altro alla carica di viceré () conosco Graziani da quando ero maggiore meharista e servivo ai suoi ordini. L'ho sempre visto tradire tutti i suoi capi () Se lo accettassi come collaboratore finirebbe col tradire anche me».

Durante gli anni trascorsi in Africa come viceré il Duca cercò di riorganizzare dal punto di vista amministrativo e gestionale l'Impero, adottò una politica coloniale rispettosa della cultura indigena e coinvolse elementi locali cooptandoli in posizioni direttive, contribuendo così a quello che Renzo De Felice ha definito «un sensibile miglioramento» della situazione generale. Intervenne, per esempio, sull'abitudine dei suoi predecessori di insediare in posti di responsabilità funzionari italiani, in gran parte inesperti e incapaci di comprendere le esigenze della popolazione autoctona e, talora, disonesti.

Sul rapporto fra il Duca e Mussolini e sul «fascismo» di Amedeo molto si è scritto. Forse in maniera troppo leggera e a sproposito nel tentativo di screditarne l'immagine ovvero di avallare una improbabile e mai dimostrata «concorrenza» od ostilità fra Amedeo e Umberto, i due esponenti della Dinastia verso i quali si indirizzavano l'interesse e l'attenzione degli italiani. In realtà, egli, più che fascista nel senso proprio del termine, fu un uomo del suo tempo che aveva assimilato clima e aspettative del patriottismo dell'epoca. Guardò con simpatia e benevola attesa l'avvento del fascismo, gioì dell'accresciuto prestigio internazionale del Paese e apprezzò il successo di Mussolini alla Conferenza di Monaco. Ma finì spesso in collisione con alti esponenti militari, primi fra tutti i generali Graziani e Cavallero, non fece mistero dei suoi malumori di fronte alla scarsa attenzione rivolta alle richieste di fondi per il consolidamento dell'impero e il rafforzamento delle truppe in Africa, non nascose disagio di fronte all'avvicinamento ai tedeschi e, soprattutto, alla legislazione razziale. Non fu, insomma, un fascista convinto, ma neppure un antifascista militante. Serbò gratitudine nei confronti di Mussolini per gli incarichi affidatigli, ma soffrì per gli «errori» del Duce e del regime. Nel diario sono frequenti le notazioni che esprimono dubbi, manifestano preoccupazioni, evidenziano disagio politico ed esistenziale.

Consapevole dell'impreparazione militare italiana, Amedeo mise in guardia i vertici politici e militari, a cominciare da Mussolini, da un intervento in guerra dall'esito, a suo parere, incerto. Il 5 aprile 1940 incontrò il Duce, gli espose la situazione militare dell'Impero e gli fece notare che «il popolo italiano non aveva nessuna voglia di fare la guerra e ancora meno di farla con i tedeschi che detestava».

Ciò anche se, qualche tempo più tardi, malgrado la ribadita antipatia per i tedeschi, ritenne, di fronte ai successi militari tedeschi, che, per il bene del Paese e per evitare che le truppe germaniche potessero girare «nella pianura padana», sarebbe stato necessario entrare in guerra «con la parte del più forte anche se più pericolosa», Le sue preoccupazioni trovarono triste conferma nell'andamento delle operazioni militari e nel tragico, se pur glorioso, episodio della disperata difesa del baluardo dell'Amba Alagi, dove egli e i suoi opposero alle truppe inglesi quella resistenza tanto eroica che valse loro l'onore delle armi.

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