da Milano
Chi sta scrivendo queste righe non è capace di eseguire un intervento chirurgico, né difendere un imputato davanti a un giudice, né autorizzare un rogito e nemmeno progettare un palazzo. Chi scrive però ha qualcosa in comune con medici, avvocati, notai e ingegneri. Appartiene ad un albo professionale regolato da un Ordine, ha superato un esame per entrarci e paga una quota annuale per rimanerci. Negli altri Paesi europei esistono ordini professionali, ma quello dei giornalisti cè solo in Italia. A cosa serve? Garantisce ai lettori uninformazione più trasparente? Una migliore qualità di giornali e tg? Seleziona i professionisti più capaci? Niente di tutto ciò. LOrdine dei giornalisti fa quello che fanno tutte le altre corporazioni: non difende linteresse dei consumatori in questo caso, dei lettori ma quello dei suoi iscritti, ponendo un limite a chi, pur svolgendo di fatto la professione, non ha modo di essere riconosciuto come tale dallOrdine. Nei giorni scorsi il segretario dei Radicali Daniele Capezzone ha proposto labolizione dellOrdine dei giornalisti, con labrogazione della legge istitutiva del 1963 dunque vecchia 43 anni - e lintroduzione di una carta didentità professionale del giornalista, rinnovabile ogni tre anni, sul modello francese. La proposta di Capezzone è stata firmata da diversi direttori di testate nazionali tra i quali il direttore di questo giornale, Maurizio Belpietro . Contrari tutti i rappresentanti dellOrdine ad eccezione dellex presidente Mario Petrina -, che hanno accusato i promotori di voler minare lautonomia della categoria.
A supporto delle tesi «abrogazioniste» lIstituto Bruno Leoni, think tank libertario presieduto da Sergio Ricossa e diretto da Alberto Mingardi, pubblica oggi uno studio di Paolo Bracalini sulla liberalizzazione della professione giornalistica, avanzando una proposta di riforma che avvicini lItalia ad altri Paesi europei come la Gran Bretagna, la Germania o la Francia, dove non esistono enti pubblici che governino la professione giornalistica.
Superfluo, se non inutile, costoso, che ce ne facciamo dellOrdine dei giornalisti? La sua principale funzione dovrebbe essere la cura del rispetto della deontologia professionale. Per questo, i consigli dellOrdine hanno poteri disciplinari e sanzionatori verso tutti gli iscritti. Un giornalista può essere sospeso e anche radiato dallalbo. Ma per il rispetto della deontologia professionale è proprio necessario un Ordine? Esiste unAuthority per le comunicazioni (oltre ad un garante della privacy) che potrebbe svolgere benissimo questa funzione di controllo. Potrebbero fare altrettanto anche delle libere associazioni di professionisti, cosa che avviene nei Paesi anglosassoni. E poi, per i comportamenti eticamente discutibili, esistono i direttori dei giornali e i lettori. Un direttore può licenziare un redattore scorretto, e un lettore può cambiare un giornale che non rispecchi più i suoi valori.
Dice Vittorio Roidi, segretario nazionale dellOdg: «I presunti liberalizzatori mi dicano chiaramente se in nome di una anarco-libertà chiunque possa fregiarsi del titolo di giornalista». Liscrizione ad un albo, sembra di capire, sarebbe di per sé la garanzia di professionalità e preparazione per un giornalista. Ma lanacronistico esame di abilitazione dellOrdine «non prova nulla, se non la conoscenza di una serie di nozioni», sostiene lIbl. Lasciamo al mercato, insomma, lesame dei professionisti.
Labolizione dellOrdine metterebbe poi fine ad unaltra anomalia italiana: i pubblicisti. Differenza poco chiara nella sostanza, rispetto ai professionisti, utile per risolvere altro genere di problemi. Perché lOrdine dei giornalisti ha notevoli problemi di cassa. E quindi ha bisogno di allargare le maglie per far entrare sempre nuovi «contribuenti». Così, con la legge 150 del 2000 anche a chi lavora negli uffici stampa, e dunque fa un lavoro ben diverso dal giornalista, sono state aperte le porte della professione. «Il risultato paradossale, si legge nello studio dellIbl - è che in Italia lanomalia dellOrdine produce una categoria in cui cè di tutto. Mentre altrove, dove non esiste un Ordine, i giornalisti sono solo coloro che fanno i giornalisti. Più semplice, e forse anche più onesto».
Lo studio dellistituto Bruno Leoni porta lesempio degli altri Paesi europei, dove lattività giornalistica è concepita secondo logiche di mercato, gli editori da una parte e i giornalisti dallaltra (associati al massimo in un sindacato). «In Austria, Danimarca, Germania e Gran Bretagna e Irlanda il giornalismo non è considerato una professione alla stessa stregua di avvocati, medici e notai. In Belgio, Francia, Norvegia e Portogallo lattività è affidata alle organizzazioni sindacali. Lattribuzione del titolo avviene attraverso commissioni miste in cui sono presenti editori e giornalisti (Francia) oppure solo giornalisti (Norvegia e Portogallo)».
Per diventare giornalisti in Francia serve un praticantato in una redazione: niente Ordine professionale, nessun titolo specifico. In Germania non cè nessuna regolamentazione della professione da parte dello Stato. «I criteri di idoneità per lo svolgimento del lavoro a carattere giornalistico vengono quindi definiti sostanzialmente dagli editori delle testate». E il famoso giornalismo anglosassone, modello per tutti? In Gran Bretagna ci sono associazioni private di categoria, a metà tra il sindacato e il club, che svolgono attività di promozione e tirocinio per i propri iscritti. E per entrarci, basta essere giornalisti. Tutto qui.
«La proposta conclude lo studio è che anche lItalia apra la professione a tutti coloro che la svolgono di fatto. Il lungo dibattito sulla riforma dellOrdine, dibattito mai arrivato a nulla, dimostra limpossibilità di riformarlo».
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