Ecco come si creò il clima adatto ai disordini di piazza

Ecco come si creò il clima adatto ai disordini di piazza

di Mario Bozzi Sentieri*

Genova «celebra» il cinquantesimo anniversario del 30 giugno 1960, presa come data-simbolo della rivolta contro il congresso del Msi ed il Governo Tambroni. «Celebra» - si badi bene - quasi fosse il 25 aprile, il 2 giugno, il 4 novembre. Il calendario appare molto fitto: una mostra al Ducale, una rassegna cinematografica, un convegno, con annesso corteo (fino a Piazza De Ferrari, luogo degli scontri, in cui decine di poliziotti furono vittime di squadre ben addestrate alla guerriglia) ed un concerto serale. Patrocinatori paganti il Comune, la Provincia di Genova e la Regione Liguria. Quello che sfugge a molti, comprese le istituzioni locali, è che comunque i «protagonisti» dell'epoca, subirono, nel processo che si tenne, a Roma, due anni dopo, gravi condanne per resistenza, oltraggio e danneggiamenti, malgrado l'appassionata arringa di Umberto Terracini, che aveva invitato i giudici a non ribaltare il verdetto già pronunciato dal «tribunale del popolo». Dopo cinquant'anni da quei fatti, è giusto «celebrare», con la pompa delle grandi occasioni, un avvenimento a dire poco oscuro e comunque al limite dell'«apologia di reato» quali furono le giornate del giugno '60 genovese? Più che «celebrare» il 30 giugno non sarebbe più utile, in termini di comprensione storica, interrogarsi su quei fatti, cogliere realmente gli interessi in gioco, capire gli orientamenti delle forze politiche in campo? È partendo da queste domande che crediamo vada riaperta la discussione su questo spezzone di storia italiana, che, per le sue conseguenze, condizionò ed orientò, per diversi decenni, molte delle vicende seguenti.
Il contesto generale I fatti del giugno 1960 vanno collocati nell'ambito della «guerra rivoluzionaria», condotta, con strumenti legali ed illegali, dal Partito comunista italiano, tra gli Anni Quaranta e gli Anni Settanta del '900, in una fase cruciale della Storia politica italiana. Siamo a ridosso della rivolta ungherese del 1956, che non pochi traumi provocò all'interno del partito guidato da Palmiro Togliatti, con una perdita di iscritti in particolare tra le giovani generazioni («Il Pci è preoccupato dai segnali negativi sul suo rapporto con le masse giovanili. Gli iscritti della Fgci sono in calo. (…) Le perdite maggiori nella città più rosse. A Genova si sono persi 5726 iscritti» - ha scritto Annibale Paloscia, «Al tempo di Tambroni - Genova 1960: La Costituzione salvata dai ragazzi in magliette a strisce», Mursia, Milano, 2010). Nel contempo siamo alla vigilia dell'apertura a sinistra da parte della Democrazia cristiana, in vista dell'ipotesi di governo con il Partito socialista, «apertura» che deve fare i conti con la presenza condizionante della Chiesa Cattolica. A pesare è ancora la «pregiudiziale anticomunista» a cui fa appello la stessa Chiesa Cattolica. La «rivolta» contro il congresso del Msi, che sostiene il Governo Tambroni, appare come l'occasione per realizzare il passaggio dalla «pregiudiziale anticomunista» ,che ha segnato la vita politica italiana dal 1948 ai primi Anni Sessanta del '900, a quella «antifascista», che caratterizza il ventennio seguente, portando il Pci ad appoggiare, nel marzo 1978, un governo di «solidarietà nazionale», presieduto da Giulio Andreotti.
Il Msi Fino al giugno 1960, il Msi è, in molte occasioni, determinante nel sostegno di decine di amministrazioni locali e provinciali (compresa Genova), senza che questo costituisca motivo di scandalo. Nell'ottobre 1958 lo stesso Pci ha concorso, del resto, con il Msi, all'elezione del democristiano Silvio Milazzo alla presidenza della Regione Sicilia. Agli inizi degli Anni Cinquanta del '900 era stato l'allora segretario dei Giovani Comunisti, Enrico Berlinguer, a tessere le lodi dei giovani missini, impegnati a contrastare il Patto Atlantico, fino al punto da realizzare manifestazioni congiunte tra giovani comunisti e giovani missini. Il Msi del 1960 è guidato da Arturo Michelini, che esprime una linea politica «entrista», collaborativa e tutt'altro che radicale, sancita dal V Congresso del Msi (Milano, 24-26 novembre 1956), che ha visto la sconfitta dell'ala «rivoluzionaria», con la conseguente uscita dal partito del gruppo del Centro Studi Ordine Nuovo, guidato da Pino Rauti, e di Nazione Sociale di Ernesto Massi. Il VI Congresso, convocato a Genova dal 2 al 4 luglio 1960, dovrebbe sancire la politica dell'inserimento voluta da Michelini, il quale trova il consenso di tutto il partito intorno alla mozione «Inserirsi per rinnovare», che - in premessa - afferma: «Il rispetto del metodo democratico, provato da quattordici anni di azione di partito, autorizza il Msi a denunciare l'illegittimo prepotere delle segreterie dei partiti che spesso si sovrappongono agli organi costituzionali in espressione di insincerità e in fattore di disordine».
La partita in gioco Nel giugno 1960 la partita in gioco non è solo quella che riguarda il Msi e la vita del Governo Tambroni, sostenuto dal Msi, ma i più generali equilibri politici nazionali, con al centro la questione dello «spostamento a sinistra» dell'asse del governo, la rottura della «pregiudiziale anticomunista», la neutralizzazione del ruolo dei cattolici «integrali». Tutto ciò può essere realizzato solo attraverso un recupero del vecchio «frontismo antifascista», reso necessario sia dal presunto «pericolo missino» sia dall'ipotizzato autoritarismo di Fernando Tambroni. La scelta di Genova, quale sede del congresso missino e fattore scatenante della protesta antifascista e antigovernativa, appare come il classico pretesto, intorno al quale costruire - secondo la tradizionale tecnica propagandistica della «guerra rivoluzionaria» - la mobilitazione di massa. D'altra parte, da parte degli ambienti missini, fino ai giorni immediatamente precedenti il congresso, non c'è la consapevolezza del pericolo. In nessun atto del Msi, né alcun libro dedicato all'argomento ne fa cenno, la scelta di Genova viene vista come un atto «provocatorio» nei confronti della città «medaglia d'oro della Resistenza». Del resto, appena quattro prima, lo stesso Msi aveva tenuto il suo congresso a Milano, anch'essa città simbolo della lotta antifascista, senza alcun problema.
L’escalation propagandistica Una settimana prima del congresso - ha notato uno dei protagonisti dell'epoca, il deputato del Msi Gianni Roberti (L'opposizione di destra in Italia - 1946-1979, Adriano Gallina Editore, Napoli 1988) «alla Camera, in seduta pubblica, noi ne avevamo reso nota la celebrazione, chiedendo al Presidente che in quei giorni, come d'uso, non si tenesse seduta: il Presidente aveva risposto aderendo alla richiesta: nessuna voce di protesta o di dissenso si era levata dai banchi, comunisti e di sinistra. Ma improvvisamente, per giustificare - o comunque motivare - la rivolta di piazza che si andava organizzando, gli strumenti della propaganda socialcomunista entrarono in azione, diffondendo tutta una serie di menzognere notizie, presentate come nostre iniziative provocatorie nei confronti della Resistenza e dell'antifascismo». Vediamole, in sintesi. - Dopo un primo, generico manifesto, a firma dei «partiti democratici» (Psdi, Psi, Pr, Pci, Pr), di denuncia per la «grave provocazione» da parte dei «fascisti del Msi», sui muri di Genova compare un altro manifesto, che crea una certa emozione: Msi = fascismo; fascismo = nazismo; nazismo = camere a gas. Il sillogismo è di lugubre efficacia, pur essendo storicamente falso. - La scelta della sala del congresso (il teatro Margherita) viene immediatamente collegata alle vicine lapidi in ricordo dei caduti della Resistenza. In realtà il Msi ha sempre tenuto i suoi comizi nella centrale via XX Settembre, dove all'epoca erano concentrate le principali sale pubbliche cittadine, senza alcun problema. La scelta della sala del teatro Margherita era solo legata alla sua capienza (circa mille posti). - Viene fatta circolare la notizia che a presiedere il congresso sarebbe stato chiamato Carlo Emanuele Basile, prefetto di Genova dal 1943 al 1944, in uno dei momenti più drammatici e sanguinosi della guerra civile. In realtà il nome di Basile, che non è un dirigente del Msi, non compare nell'elenco dei delegati al VI congresso, pubblicato dal «Secolo d'Italia», né esistono indicazioni ufficiali sulla sua presenza a Genova. Al margine va peraltro notato che, accusato, dopo la guerra si essere stato il responsabile di numerose azioni criminose, Basile fu prosciolto, nel 1947, dalla Corte d'Assise di Venezia con formula piena. - Si parla poi della presenza al congresso del Principe Junio Valerio Borghese, comandante della X Mas durante la Rsi. In realtà Borghese aveva rotto ogni rapporto con il Msi nel 1956, proprio a seguito della «svolta moderata» impressa da Michelini al partito. - Circola voce dell'arrivo di 2000 missini, con funzione di difesa dei delegati. In realtà la dirigenza missina rifiuta di seguire ogni ipotesi extralegale, confidando, proprio per il suo ruolo «di governo», di essere garantita dalla presenza delle forze dell'ordine e dal Ministero degli Interni. - Circola la notizia, intorno al 25-26 giugno, che i membri dell'esecutivo dell'Anpi sarebbero stati arrestati. In realtà non viene registrata alcuna azione in questo senso.
Spontaneismo «armato» Alla progressiva azione propagandistica da parte della sinistra fa riscontro una puntuale organizzazione della piazza. Esistono - a questo proposito - numerosi rapporti riservati e testimonianze di prima mano, che evidenziano come gli scontri del 30 giugno 1960 siano frutto di una regia attenta.
Il Pci, che si vuole defilato, rispetto all'impegno più diretto dell'Anpi e della Cgil, ha un ruolo essenziale nella regia delle manifestazioni - come testimonia un ex dirigente comunista, Luciano Barca (Cronache dall'interno del vertice del Pci, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2005). Fonti «fiduciarie» parlano di gruppi di ex partigiani fatti affluire dalle province di Alessandria, Savona, Imperia, La Spezia, Parma, Cuneo, Torino, Milano, «per poter fronteggiare le forze di polizia». I rapporti dei Carabinieri segnalano squadre di 5-10 uomini, ciascuna con un capo e perfettamente coordinate, in grado di rifornirsi di sassi, bottiglie molotov, spranghe e dotate anche di un servizio medico organizzato per evitare che i manifestanti andassero in ospedale e venissero identificati (cfr. Luciano Garibaldi, Due verità per una rivolta, «Storia illustrata», n. 337, dicembre 1985). Nel Rapporto della Prefettura di Genova al ministro dell'Interno, «riservatissima personale» del 3 luglio 1960 (citata da Adalberto Baldoni, La Destra in Italia - 1945-1969, Editoriale Pantheon, Roma 1999), il Prefetto Pianese scrive sui manifestanti del 30 giugno: «La loro tattica è quella di venire a contatto diretto e a scontri frontali con le forze di polizia (…). Da lontano, da appostamenti, da cornicioni, le assalgono con grosse pietre, mattoni, bottiglie, spranghe di ferro, etc. cercando di frazionarle, facendosi inseguire, per poi assalire isolatamente piccoli reparti e mezzi in difficoltà, o attirandoli in luoghi predisposti per l'imboscata». Ugualmente significativo l'articolo, pubblicato, il giorno seguente gli scontri, da Il Secolo XIX («Ore di tumulti e di sanguinosi tafferugli nel centro di Genova durante lo sciopero di protesta contro il congresso del Msi»), che, avendo la propria sede in piazza De Ferrari, luogo degli scontri, può utilizzare un osservatorio privilegiato. Nella dettagliata cronaca del quotidiano genovese si parla del linciaggio a cui sono sottoposti gli agenti di polizia, del capitano Francesco Londei, quasi affogato nella vasca e poi abbandonato svenuto a terra, del poliziotto Emanuele Rimaudo che ha mandibola sfondata dal colpo di una trave, delle camionette date alle fiamme, dei ganci da portuale usati come armi («un agente ha avuto la bocca letteralmente strappata da quell'arma, un altro ha riportato un foro in un braccio»). Il bilancio degli scontri (iniziati dopo le 15 e protrattisi fino alle 20) è gravissimo, con novanta poliziotti feriti, centoventotto contusi, diciotto automezzi distrutti o danneggiati. Il processo per i fatti di Genova, che si conclude il 19 luglio 1962, porta alla condanna di 43 imputati, per resistenza, oltraggio e danneggiamenti. L'obiettivo è stato comunque raggiunto. Il congresso a Genova non viene tenuto, il Msi «rompe» con Tambroni, i nuovi governi di centrosinistra sono alle porte.
Se non Genova Nei mesi seguenti il mancato Congresso a Genova è stato ovviamente oggetto di varie analisi di parte missina. Pino Romualdi giudica come «troppo avventurosa e ingenua» la scelta a favore di Tambroni, «anche perché avevamo intanto mancato di preparare il Partito ad una vera politica di destra, non mortificando all'interno le solite opposizioni socialistoidi, di cui il nostro Partito ha sempre sofferto. Con risultati politici ed elettorali zero, ma tanta confusione». Sulla stessa linea Enzo Erra, che addebita a Michelini di avere appoggiato Tambroni in modo intempestivo, «senza tramiti e senza intercapedini di garanzia politica e istituzionale, come monarchici e liberali». Resta l'elemento di fondo che, qualsiasi fosse stata la scelta del Msi in merito alla sede del congresso, la «strumentalità» del Pci avrebbe comunque scatenato la piazza contro il Governo Tambroni e chi lo sosteneva.
In conclusione Il senso delle vicende genovesi, al di là di ogni interpretazione «mitica» (sulla città in piazza per la libertà e la democrazia) sta nelle «Note di propaganda», il quindicinale della sezione centrale e propaganda del Pci (n. 7, 4 luglio 1960), diffuso a ridosso del 30 giugno genovese: «l'ondata combattiva e larghissimamente unitaria di antifascismo che contro il congresso del Msi ha animato la lotta di Genova, con la partecipazione e la solidarietà di altre città, deve accentrarsi nel contenuto della nostra propaganda, insieme alle questioni su cui si sviluppano le lotte del lavoro e insieme alla lotta per la distensione contro le basi straniere, l'attacco vigoroso per abbattere subito il governo Tambroni». Da qui l'invito a «fare leva sulle tradizioni locali della Resistenza» e contro «il connubio tra la Dc e la sopravvivenza fascista».

La prospettiva vera? «In questo modo l'attacco antifascista diventa anche un terreno su cui ricercare e sviluppare le convergenze e le intese tra le forze di sinistra e democratiche per l'affermazione di nuove maggioranze nei comuni e nelle province nelle prossime elezioni amministrative». In questo, in fondo, c'è il senso reale dei fatti di Genova e delle vicende politiche italiane, dal 1960 in poi.
*storico

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