Cinzia Romani
da Roma
La guerra finita la vedono i morti, sosteneva Platone. E di morti, di croci, di cimiteri, di fosse, di funerali improvvisati, se ne vedono parecchi nellultimo lavoro di Mario Monicelli, regista classe 1915 laureato in filosofia, che con Le rose del deserto (dal 1° dicembre nelle sale, con la bellezza di 230 copie) torna a raccontare la «sporca guerra» per il tramite delleccellente cast formato da Michele Placido, Giorgio Pasotti, Alessandro Haber e Moran Atias. I maestri del cinema girano sempre lo stesso film, così il vispo autore toscano, qui al suo sessantacinquesimo prodotto (ottantacinquesimo, come sceneggiatura) è tornato sui passi de La grande guerra (1959), per quanto riguarda la riflessione sulla follia degli eserciti e di Amici miei (1975) per il versante ironico-farsesco. Lispirazione del soggetto, con un reparto dellesercito italiano, nel 1941 abbandonato a se stesso nel deserto libico, proviene invece dal romanzo di Mario Tobino Il deserto della Libia (Mondadori) e da un brano dellopera di Giancarlo Fusco Guerra dAlbania (Sellerio), fonti letterarie di rango. Daltronde, erano quattro anni che il cineasta puntava a fare questo suo kolossal eroico, costato un milione e 875mila euro (tra produzione, distribuzione e vendite estero) al Ministero per i Beni culturali, qui in tandem con Rai Cinema e Mikado Film e, come la mitica figlia di Don Camillo, voluta (a parole) dai festival di Venezia, Torino e Roma, nessuna rassegna, di fatto, ha poi incluso la commedia monicelliana.
Ieri, però, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è andato al cinema Barberini, in compagnia della moglie Clio, a vedersi Le rose del deserto, sia come ex-combattente (a Tobruk), sia come amante del grande schermo (sua figlia Silvia è una prolifica sceneggiatrice), dando maggiore visibilità allo sbarco nelle sale. E se la lavorazione del film, in Tunisia, è stata tormentosa, tra soldi a singhiozzo e tempeste di sabbia, quel che si vede è puro Monicelli. A cominciare dalla cornice, un deserto pieno di sabbiaccia sporca e biancastra, priva di romantiche dune e soffici contorni. E finendo con il dorso concilista, al limite di un mollaccionismo allitaliana, duna vicenda che, al pur convincente Pasotti, lascia dire: «È la guerra che fa cattive le persone».
Eppure, presentando il film, lautore, à la page con gli occhialetti da riposo rossi, stampati in panterato come moda giovane comanda, dapprima spiega: «Anchio ero in Libia, nel 1936, poi in Jugoslavia e sono pacifista», salvo poi correggere il tiro: «Ma non voglio la pace a tutti i costi, perché chi ragiona così, è pericoloso». Certo, con la recente polemica sui caduti di Nassirya, Monicelli non risulta convincente. Lo si comprende meglio quando racconta la genesi del film. «Mi pareva che questultima guerra, persa come tutte le altre, non fosse mai stata raccontata, al contrario della Resistenza. Il libro del mio amico Tobino, viareggino come me e quasi mio coetaneo, mi aveva entusiasmato».
Dal romanzo derivano il malinconico personaggio del Maggiore Strucchi (Alessandro Haber), il cui tormentone «per il bene che vi voglio», detto ai soldati, diventa gag comica e il ruolo del generale «Rombo del deserto» (lesilarante Tatti Sanguineti, dallimpeccabile dizione stentorea in presa diretta), fissato con il cimitero della Trentunesima Sezione. Questultimo, ripreso con improvvise accelerazioni da comica a bordo del sidecar, dà un tocco di farsa alla commedia.
Menzione a parte merita Michele Placido, mattatore col suo Frate Simone.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.