Ecco il terzo uomo del giallo Majorana

P ersonaggio misterioso Ettore Majorana, che a più di 70 anni dalla scomparsa continua a far parlare di sé. Non ci meraviglierebbe scoprire che è stato assassinato dai tedeschi come confidente e collaboratore degli americani o dagli americani come confidente e collaboratore dei tedeschi.
Ora c’è un nuovo indizio nel giallo del grande fisico italiano di cui, dal 26 marzo 1938, si è persa ogni traccia. Più che un indizio, una prova: Guido Abate, giovane ricercatore dell’università di Brescia, ha individuato fra i documenti degli archivi del ministero dell’Interno britannico la vera identità di Charles Price, l’enigmatico inglese che appunto la sera del 26 marzo avrebbe condiviso con Majorana, e col professore universitario Vittorio Strazzeri, la cabina n.37 del traghetto in rotta da Palermo a Napoli.
Si tratta di un ebreo russo di cognome Zedick, nativo di Odessa e residente a Glasgow, che con una semplice pratica di naturalizzazione acquista la nazionalità e la cittadinanza britanniche col nome e cognome di Charles Price. Il documento, datato 16 novembre 1927, «per ogni altra informazione risulta secretato fino al 2027». Un secolo! Il «terzo uomo» del caso Majorana ha dunque un volto e una storia. Forse è un agente dell’Irgun Zwai Leumi, l’organizzazione spionistica del futuro Stato di Israele; o lo «sprovveduto» che all’università di Palermo aveva incontrato il Nobel Emilio Segrè, titolare della cattedra di fisica, per sollecitarlo a organizzare in città una cellula di attivisti sionisti; oppure un membro dei Servizi segreti del Regno Unito i cui interessi politici all’epoca coincidevano con quelli di Israele. Difficile stabilirlo con esattezza.
Di certo sappiamo soltanto che il decennio fra il 1935 e il 1945 è stato un unicum nella storia della scienza e dell’umanità. Non era mai accaduto, né prima né dopo, che un pugno di supercervelli, accomunati da un’eccezionale genialità e motivati da una sorta di febbre collettiva verso la conquista dell’infinitamente piccolo, fossero arrivati all’assoluto dominio dell’infinitamente grande al punto di cambiare il corso della storia. Dopo la bomba atomica il mondo non sarebbe più stato quello di prima. I fisici nel giro di pochi anni costringono tutti i Paesi più industrializzati a una affannosa reciproca rincorsa. Majorana è fra i nuovi demiurghi. E della fisica, ma non solo, forse ha visto e saputo qualcosa di troppo. Oppure, molto più probabile, c’era qualcuno che credeva avesse visto o saputo troppo.
In ogni caso c’è da chiedersi: che cosa in realtà Majorana avrebbe potuto vedere e sapere più degli altri «addetti ai lavori»? Che Fermi nel 1934 aveva ottenuto in laboratorio la scissione (fissione) dell’atomo senza accorgesene e che la conseguenza di quella casuale scoperta sarebbe stata una reazione nucleare (la reazione a catena) capace di provocare un’esplosione artificiale senza precedenti per capacità distruttiva? Ma l’aveva intuito subito anche la giovane chimica di Berlino Ida Noddack benché l’élite della fisica mondiale non l’avesse presa sul serio. Pure il fisicomatematico ungherese Leo Szilard, già nel 1932, aveva intravisto la possibilità di costruire un’arma di distruzione di massa grazie a un elemento che «spaccato dai neutroni ne emette due mentre ne assorbe uno, quindi può sostenere una reazione a catena di enorme potenziale esplosivo»; nel 1934 aveva perfino brevettato la sua intuizione presso l’Ammiragliato britannico, quattro anni prima della fissione del nucleo dell’uranio da parte di Otto Hahn. Che si potesse fabbricare l’Atomica nel 1938 era insomma una specie di segreto di Pulcinella. L’enigma era come realizzarla.
Proprio perciò Usa e Inghilterra avevano organizzato la diaspora verso gli Stati Uniti dei più capaci scienziati europei. Un esodo senza precedenti, organizzato nei minimi particolari dai Servizi di intelligence. Questo sì, segretissimo. Se qualcosa fosse trapelato, tutto il Piano per realizzare l’arma risolutiva del secondo conflitto mondiale sarebbe stato compromesso. Di tale piano, per sua disgrazia, Majorana era a conoscenza. E quando la notte del 25 marzo 1938 si reca a Palermo per incontrarsi con Segrè quasi di certo allo scopo di confermargli il rifiuto a lasciare l’Italia per l’America, col suo «no» forse si segna la condanna a morte.
Perché Majorana era tanto turbato alla prospettiva dell’incontro di Palermo? Probabilmente temeva una ritorsione dei Servizi inglesi e sionisti, i quali non avrebbero potuto tollerare che una personalità del suo calibro e delle sue idee giudicata, forse a torto, filofascista, con una eventuale denuncia potesse far fallire l’intera operazione «fuga dall’Europa» della élite della fisica. Una impresa pianificata a livello internazionale. Segrè infatti avrebbe lasciato l’Italia il 3 luglio, Fermi, ricevuto il Nobel, sarebbe salpato per New York il 24 dicembre, Bruno Rossi poco dopo e così Giulio Recah (destinazione Gerusalemme) mentre Pontecorvo già da due anni era a Parigi presso Joliot-Curie. Stessa situazione per gli altri Paesi del Continente; e qui va ricordato il rocambolesco «rapimento» organizzato dagli 007 britannici per trasferire in Usa, dalla Danimarca in mano nazista, il padre della meccanica quantistica Niels Bohr; ed entra nel gioco delle ipotesi perfino l’Urss che nel 1935 aveva addirittura invitato Majorana a dirigere l’Istituto superiore di fisica di Mosca.
Ettore era uno dei più grandi fisici teorici del suo tempo, un genio come Galilei e Newton secondo Fermi, che tuttavia non lo amava, ricambiato; e in via Panisperna non c’era chi non ricordasse il violento alterco in cui, davanti a una lavagna folta di numeri e formule, il «Papa» (Fermi) e il «Grande Inquisitore» (Majorana) si davano reciprocamente dell’asino e del cretino. Di quest’uomo che sapeva tutto su atomi e nuclei, i suoi compagni di lavoro conoscevano ben poco, quasi nulla: che era nato a Catania nel 1906, che la sua famiglia si era trasferita a Roma dove Ettore si era laureato, che gli zii paterni erano tutti docenti universitari, alcuni anche ministri. Quanto al resto, Majorana nascondeva tutto di sé o meglio lo ricopriva di un tale velo di discrezione da renderlo impenetrabile. È così anche negli ultimi mesi prima della scomparsa: si comporta da persona minacciata, spaventata, ma non ne fa parola con nessuno, neanche coi famigliari.
Ma a questo punto serve fermarsi su ciò che sappiamo per testimonianze sicure. È il 25 marzo 1938. Lo scienziato, alle 22,30, salpa da Napoli col traghetto per Palermo dove prevede un incontro molto importante(con Emilio Segrè). Da Palermo invia una lettera al professor Antonio Carrelli, direttore dell’Istituto dell’università dove lui stesso è titolare di fisica teorica. Scrive: «Il mare mi ha rifiutato, tornerò domani». La lettera è del 26 marzo. Secondo la Polizia, quel giorno, alle 19, Majorana s’imbarca sul traghetto per Napoli; e a Napoli approda alle 5,45. Dopo, nessuna notizia. Dai biglietti ritrovati presso la Compagnia di navigazione «Tirrenia» risulta che nella stessa cabina hanno viaggiato Vittorio Strazzeri, docente dell’università di Palermo, Ettore Majorana e l’inglese Charles Price. Secondo Strazzeri è certo che uno dei due compagni di viaggio si chiamasse Price, «anche se parlava italiano come la gente del Sud e aveva modi piuttosto rozzi». Dato che Strazzeri ha scambiato qualche parola con l’uomo che doveva essere Price, e nessuna con l’altro, non c’è dubbio che fosse quest’ultimo il vero Price, di cui ora si è trovata l’autentica identità; il primo uomo, il meridionale, sarebbe dunque stato una semplice controfigura di Majorana che quindi non avrebbe mai compiuto il viaggio di ritorno a Napoli ma sarebbe stato eliminato, o sequestrato, a Palermo. L’intera messinscena sarebbe stata organizzata allo scopo di allontanare i sospetti della Polizia italiana dal capoluogo siciliano e da alcune persone che lì si trovavano.
A questo punto non ha alcun senso riproporre l’ipotesi del suicidio in mare annunciata da Majorana, anche perché chi ha questa intenzione non si porta dietro né passaporto né molto denaro. Non ha nemmeno senso supporre la fuga in convento a causa di una crisi religiosa dato che, mentre la Polizia cerca nei monasteri, nel gruppo di via Panisperna tutti pensano subito a una morte violenta dello scienziato; e perfino Fermi lascia trascorrere 4 mesi prima di chiedere al Duce di «intensificare le ricerche»: un atteggiamento distaccato e fatalista che Franco Rasetti, «Cardinal Vicario» vice di Fermi, non condivide e che certo contribuisce alla sua decisione di abbandonare l’Istituto di Roma per l’università Cattolica del Canada (1939) e poi, per sempre, la fisica.


Molti anni dopo, nel 1986, un ufficiale israeliano, David Neelan, si fa intervistare dal Times e avanza la tesi di un Majorana rifugiato in Australia, ancora vivo. Ma Neelan è un capitano del Mossad. Il «depistaggio» non è finito.

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