Cultura e Spettacoli

Ecco la «Venere» inedita Trionfa in scena la New York di Kurt Weill

L’opera «One touch of Venus» è stata rappresentata per la prima volta al Teatro Alighieri allestito dall’Opera North. Emozionante l’esecuzione di «Parla sottovoce»

Alberto Cantù

da Ravenna

I cinefili e qualche lettore dai capelli grigi ricorderanno forse Il bacio di Venere, un film del ’48, una commedia brillante e sofisticata con Ava Gardner che è la trasposizione un po’ annacquata ma non priva di ironia del musical One touch of Venus (Il tocco di Venere), composto da Kurt Weill cinque anni prima e applaudito all’Imperial Theater di New York per 567 sere.
È il Weill che col nazismo lascia la Germania. Che per dodici anni, da cittadino americano, scrive lavori di successo per le scene Usa e per Broadway (Lady in the dark). Compone anche un’opera, Street scene, fra degradate «scene» di emarginazione sociale, con cui intende proseguire il cammino di Gershwin e Porgy and Bess verso un teatro autenticamente a stelle e strisce.
Salvo Street scene, vista anni orsono al Regio di Torino, il Weill americano da noi è praticamente sconosciuto. Su di esso, inoltre, pesa una sorta di condanna a priori: l’avere tradito, per il denaro e i facili consensi, l’impegno e l’ideologia da cui era nata con Brecht l’Opera da tre soldi.
Vero? Falso. Lo ha dimostrato la prima italiana de Il tocco di Venere che il Ravenna Festival ha meritoriamente battezzato, ieri l’altro al Teatro Alighieri, in un allestimento esemplare e festeggiatissimo dove c’era un altro battesimo italiano: quello della più giovane compagnia operistica d’Inghilterra, «Opera North», che in vent’anni ha saputo innovare il repertorio con allestimenti non convenzionali e proporre molti titoli rari con un’intelligente adesione, come nel caso di Weill, alla lettera e allo spirito della pièce.
C’è un’orchestra brillante e impeccabile, tenera e scatenata che James Holmes dirige col sorriso sulle labbra. Le scene di Anthony McDonald e i costumi di Emma Ryott ambientano e stilizzano a meraviglia una New York anni Quaranta tra pubblicità e fumetti, interni sofisticati ed esterni grigi e lividi, suite lussuose e miserabili stanzette dove malinconia e humour, la zampata irriverente e l’apertura sentimentale sono tutt’uno con la musica e l’intreccio.
Con una statua di Venere che dopo tremila anni prende magicamente vita, tra un riccone che finanzia l’arte moderna per solo puntiglio snobistico e un barbiere squattrinato, s’innamora di quest’ultimo, smaschera la petulanza piccolo-borghese della sua fidanzata, cerca di vivere quella vita americana che però la soffoca tanto da tornare sul suo piedistallo e nel suo mito ma non senza consolare l’innamorato con una copia perfetta di sé: quella che potrebbe essere «la cugina di campagna di Venere».
Il riccone Savory (Ron Li-Paz), la sua disincantata segretaria (Christianne Tisdale), Rodney il barbiere (Loren Geeting), Venere (Karen Coker), la fidanzata del barbiere con ingombrante mammà al seguito (Jessika Walker e Caroline Wilson: due cartoni animati spassosamente in carne e ossa), lo scombinato investigatore Taxi Black (Eric Roberts) e il suo rimbambito aiutante (Jeffrey Lloyd-Roberts) sono perfetti come attori, cantanti e ballerini.
Lo stress della vita metropolitana è un grigio balletto di automi senza volto su dissonanze dell’orchestra. Il song Vento dell’ovest, che racconta i fallimenti sentimentali di Savory, è drammatico o sentimentale ma per finta, come una caricatura di Puccini, e fra testo e musica riecco lo «straniamento» alla Brecht-Weill. Ondosi preludi coi violini ipersentimentali stanno al gioco del musical e al tempo stesso ne irridono le leggi. La più celebre delle canzoni del musical, Parla sottovoce, ha invece la trepida, sofferta malinconia di una meditazione sulla vita, sull’amore, sulla caducità delle cose.

E con questi temi non si scherza come Weill, da innamorato di Mozart, sa benissimo e dimostra qui in maniera magistrale.

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