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Ecologisti, poche balle: per salvare la Terra l'unico modo è consumare meno

Secondo il Rapporto 2010 del «Worldwatch Institute» anche gli accordi di minima raggiunti al summit di Copenaghen sono irrealistici. La triste realtà - dicono i numeri degli studiosi - è che ogni anno le persone utilizzano un terzo di risorse in più di quanto il pianeta può offrire

Quante balle dicono gli ecologisti. Quante inutili speranze, che alimentano una «green economy» di cui si approfittano in tanti. La lotta al cambiamento climatico, poche chiacchiere, non può che passare -obbligatoriamente - per una rinuncia al consumismo. Si abitui la gente a consumare di meno, altrimenti non ci sarà più un pianeta disponibile per le future generazioni. Questo è quanto sostiene il Worldwatch Institute, ed emerge dai dati del «Rapporto sullo Stato del mondo nel 2010», appena pubblicato.
Dal 2005, «sono state emanate migliaia di politiche governative, centinaia di miliardi di dollari sono stati investiti in imprese verdi e in infrastrutture, scienziati e ingegneri hanno accelerato lo sviluppo di una nuova generazione di tecnologie verdi, e i mass media hanno trasformato i problemi ambientali in una preoccupazione generale» spiega il presidente del Worldwatch Institute, Christopher Flavin. Ma in mezzo a tutto questo fervore «è stata trascurata una dimensione del nostro dilemma ambientale: le radici culturali».
«Abbiamo visto sforzi incoraggianti per combattere la crisi mondiale provocata dal cambiamento climatico in questi ultimi anni» afferma Erik Assadourian, esperto del Worldwatch Institute. Tuttavia, osserva Assadourian, «procedere a cambiamenti tecnologici e politici mantenendo una cultura imperniata sul consumismo non è più possibile».
Le spese per i consumi nei paesi industrializzati contano per il 70 per cento del Pil. In totale, ogni anno si estraggono 60 miliardi di tonnellate di risorse, circa il 50 per cento in più rispetto a 30 anni fa. In altre parole, le persone utilizzano circa un terzo in più della capacità della Terra, minando così la vita degli ecosistemi, dai quali dipende l'umanità. «Per mantenere un'economia sostenibile le società umane devono modificare i loro valori culturali nel senso che una crescita economica duratura deve diventare la norma e i consumi eccessivi un tabù», prosegue Assadourian.
Secondo il «Rapporto dell'istituto sullo stato del mondo nel 2010» la popolazione globale ha consumato beni per 30.500 miliardi di dollari nel 2006, con un aumento del 28 per cento in dieci anni. Questo boom dei consumi ha implicato un'esplosione dell'estrazione di materie prime e dei consumi energetici, equivalente in massa a circa 112 «Empire State Building» al giorno.
Se tutti gli abitanti della terra consumassero quanto uno statunitense medio, cioè 88 chili di beni e equivalenti in termini di energia al giorno, il pianeta potrebbe soddisfare i bisogni solo di 1,4 miliardi di persone, un quinto della popolazione attuale, si legge nel rapporto.
Secondo il Worldwatch Institute i 500 milioni di persone più ricche, il 7 per cento circa della popolazione mondiale, sono responsabili della metà delle emissioni di biossido di carbonio, i tre miliardi di persone più povere del sei per cento. Senza misure per contenere i gas effetto serra la temperatura della Terra rischia di aumentare di 4,5 gradi Celsius nel 2100 rispetto all'era preindustriale. E anche se tutti i paesi rispettassero i loro obiettivi più ambiziosi di taglio della Co2, il termometro salirebbe di 3,5 gradi da qui a fine secolo, si legge ancora nel rapporto.
Al summit Onu di Copenaghen a dicembre i paesi partecipanti hanno concluso un accordo di minima sottolineando la necessità di limitare il rialzo termico a due gradi, senza indicare i mezzi per raggiungere questo obiettivo. Per produrre una quantità di energia pulita nei prossimi 25 anni sufficiente a fare a meno di carbone e petrolio, il mondo dovrebbe fabbricare 200 metri quadrati di pannelli solari al secondo e 24 turbine eoliche da tre megawatt l'una all'ora per tutto il periodo di tempo, dice il rapporto.
L'economista britannico Paul Ekins descrive il consumismo come un orientamento culturale in cui «il possesso e l'uso di un numero crescente di beni e servizi è la principale aspirazione culturale e la strada più sicura percepita per la felicità personale, status sociale, e il successo nazionale». Paradossalmente, però, la ricerca mostra che consumare di più non significa necessariamente una migliore qualità della vita.
A invertire la rotta può contribuire anche la religione. Per Gary Gardner del Worldwatch Institute «le organizzazioni religiose, che coltivano molte delle credenze più profonde dell'umanità, potrebbe svolgere un ruolo centrale nel promuovere la sostenibilità e dissuadere dal consumismo».
Non solo: anche il mondo delle imprese può contribuire a cambiare lo stato delle cose. Basta creare una visione della cultura centrata non sul consumismo, ma sulla sostenibilità come nuovo dato per la gestione delle priorità. «E la priorità numero uno sarà quella di acquisire una migliore comprensione di ciò che è l'economia e se la crescita perpetua è possibile o addirittura desiderabile» spiega Assadourian.
«Mentre il mondo emerge dalla recessione più grave dal tempi della Grande Depressione, abbiamo un'occasione senza precedenti per voltare le spalle al consumismo», rileva il presidente del Worldwatch Institute Christopher Flavin.

«In fin dei conti l'istinto di sopravvivenza deve prevalere su quello di consumare a qualunque costo».

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