Le dieci «società-Stato» che salvano Wall Street

Quella vecchia volpe di Carl Icahn si è già portato avanti col lavoro: addio eBay, con la cessione dei 46,3 milioni di azioni che aveva in portafoglio, e benvenuta PayPal, di cui ha comprato lo stesso numero di titoli portando la propria partecipazione al 3,8%. Non è una mossa casuale, quella di chi è ritenuto fra i raider più attivi di Wall Street. Dopo la scorporo, Paypal ha sostituito nell'indice Standard&Poor's 500 il colosso delle aste online. Ed è proprio lì, in quel listino che dovrebbe rappresentare la crème de la crème della Corporate America, che si possono accumulare fortune miliardarie. E in fretta. Anche se, per la verità, non è proprio oro tutto ciò che luccica. Anzi. Posando la lente sull'S&P 500, si capisce subito che qualcosa non quadra. C'è infatti un'anomalia macroscopica tra il passo di carica delle 10 big del listino e l'andamento a ritroso delle restanti 490 aziende del paniere. Amazon, Google, Facebook, General Electric, Microsoft, Disney, Starbucks, Visa, Netflix e Home Depot compongono una sorta di dream team finanziario capace di guadagnare in Borsa, da inizio anno, grosso modo l'equivalente delle perdite accumulate dall'intero listino (vedi grafico). Una tale potenza di fuoco è talmente efficace non solo da occultare la diffusa tendenza al ribasso, ma anche da esprimere quotazioni superiori a 16 volte gli utili per azione, un livello da bolla hi tech di fine anni '90.Qualche cliente di Wall Street sta infatti cominciando a preoccuparsi, temendo che possa presto scoppiare quella che molti ritengono essere la big bubble del terzo millennio. Lo squilibrio all'interno dello S&P è in effetti spaventoso, e denuncia un'eccessiva sopravvalutazione data proprio dall'ipertrofico rapporto prezzo/utili. Ma salta altrettanto all'occhio di come aziende giovani, o relativamente recenti, abbiano raggiunto livelli di capitalizzazione tali da guardare dall'alto verso il basso società ben più consolidate, magari secolari. E non solo. Basti pensare che la ricchezza borsistica espressa da un'azienda come PayPal (44 miliardi di dollari in base ai dati del 10 novembre scorso), con poco più di 10 anni di attività alle spalle, equivale all'intera capitalizzazione dell'indice Msci del Cile. Per non parlare poi dell'accoppiata Google-Amazon (quasi 830 miliardi), il cui valore è molto vicino a quello dell'intero mercato cinese, mentre Cisco surclassa il market cap russo, Facebook batte quello indiano e Microsoft ha una capitalizzazione praticamente appaiata a quella di Piazza Affari. E ancora: le top five (Apple, Alphabet-Google, Microsoft, Ge e Amazon) valgono oggi qualcosa come 2.138 miliardi, una cifra più o meno simile al Pil del Brasile.Ma chi ha alimentato la corsa al rialzo dei titoli di aziende il cui peso specifico è ormai da too big to fail, cioè troppo grandi per fallire? La Federal Reserve è l'indiziato numero uno. La politica dello Zirp, cioè dei tassi compressi a livello zero, è stata la principale leva che ha invogliato lo shopping borsistico, per lo più concentrato verso le nuove leve del capitalismo a stelle e strisce. Anche a dispetto di fondamentali economici del Paese non così brillanti da giustificare una simile impennata delle quotazioni. Del resto, se l'America sprizzasse salute da ogni poro la Fed non si troverebbe ormai da mesi impigliata in una sorta di conundrum, il rebus irrisolvibile tanto spesso citato da Alan Greenspan, che ha finora impedito di prendere una decisione sui tassi d'interesse. Ed è stata sempre alla politica monetaria Usa estremamente lasca che si deve il massiccio ricorso ai buyback da parte della Corporate Usa. Con il riacquisto di azioni proprie, le società hanno potuto mantenere alto il valore dei titoli, mentre il denaro a buon mercato ha permesso di continuare ad elargire ricchi bonus ai manager e di pagare lauti dividendi.

Il vento sembra però cambiare: nel terzo trimestre il numero di società che hanno effettuato buyback è calato a 378 dalle 390 del secondo trimestre. Insomma: meno benzina nel motore del mercato. Siamo proprio sicuri che la Fed alzerà i tassi in dicembre?

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