Lavoro, uffici pubblici e il dramma dell'Ilva

I paradossi esprimono dati di fatto che in superficie avvertiamo stridenti. In questi giorni mi appare, per l'appunto paradossale, la realtà a due facce di vicende legate al mondo del lavoro. Da un lato i volti dei lavoratori dell'Ilva che chiedono di poter lavorare negli altiforni, tutt'altro che posti invidiabili: dall'altro il triste spettacolo di impiegati della pubblica amministrazione che il lavoro ce l'hanno, ma si fanno timbrare il cartellino per fare i loro comodi. Non certo casi isolati considerata l'inefficienza cronica degli uffici pubblici dove il burocrate occupa la scrivania affermando il disvalore della mentalità assenteista sul luogo di lavoro. Con il concorso di colpa del sindacalismo conservatore che sale sulle barricate per proteggere l'onorabilità delle maestranze delle funzione pubblica. L'Italia che non funziona è ben raccontata da questi aspetti drammatici di vita quotidiana. E, in entrambi i casi, la responsabilità della mano pubblica è certezza disarmante. Di «peggiocrazia» mi sono già speso in abbondanza. Nel caso dell'Ilva si è arrivati a questo punto perché lo Stato, in passato, non è riuscito ad obbligare la famiglia Riva, proprietaria di quella straordinaria eccellenza italiana, al rispetto dei parametri di tutela ambientale. Il sequestro e le tempeste giudiziarie in corso hanno portato allo stallo attuale. Il Governo confida che l'Ilva sarà venduta e bene. Al momento non ci sono segnali di facoltosi imprenditori alla porta. Concordo con Gianfilippo Cuneo, acuto consulente d'azienda: torniamo l'Ilva ai Riva.

Ad una precisa condizione: che stavolta la famiglia faccia i compiti per bene a proposito di impatto ambientale e tutela della salute. Oltre a ricapitalizzare, naturalmente. Non credo che l'Italia, anche per quel che rappresenta l'indotto, possa permettersi un default del settore dell'acciaio. Senza Ilva la resa è certa. www.pompeolocatelli.it

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