di Giancarlo Mazzuca
Figlio di Carlo, nipote della mitica Anna e pronipote del capostipite, un altro Carlo, detto «il Cirula», Andrea, quarta generazione dei Bonomi, oggi alla guida di un fondo internazionale di private equity, è stato il classico rampollo di una grande famiglia italiana. Anni fa, ai tempi della «Milano da bere», gli dedicai un capitolo del libro «Eredi», scritto con Paolo Mazzanti, sulle dinastie industriali. Rileggere quanto disse allora è particolarmente illuminante all'indomani della notizia che il nostro Andrea, assieme al salotto buono che gravita attorno a Mediobanca ha lanciato la contro-offerta a Rcs-Corriere, in alternativa alla mossa di Urbano Cairo.
La vita riserva sempre sorprese e ci propina molte analogie: ora, per certi versi, va in onda la vendetta dei Bonomi, con Andrea nei panni del cavaliere bianco, perché proprio il gioiello di famiglia, la Bi-Invest, venne scalata e conquistata da Mario Schimberni, manager della Montedison. Oggi l'ultimo dei Bonomi è tornato a rappresentare l'argenteria di un certo mondo contro un imprenditore, Cairo, che si è fatto tutto da solo. In quell'intervista di 25 anni fa, Andrea fu quasi profetico: «Accetto il principio della scalata, ma non avrei certamente condotto un takeover come quello alla Bi-Invest, perché ci sono dei modi leciti anche nelle scalate e altri che non lo sono. In quella vicenda c'erano degli interessi politici notevoli, che portarono a coprire grosse irregolarità nella procedura. Ci siamo trovati a dover lottare contro un gruppo senza regole e senza etica. A lungo andare, però, le persone scorrette finiscono col pagare le proprie azioni». A neppure vent'anni di età, tra la gavetta alla Lazard di New York e il caso Bi-Invest, Andrea aveva già visto tutto. Proprio il tirocinio alla Lazard - la finanziaria del francese André Mayer, grande amico di Enrico Cuccia - aprì gli occhi all'allora giovanissimo Andrea: «La Lazard mi ha insegnato a diffidare di tutti, a essere pronto a misurarmi con chiunque, anche con i più spietati, senza il timore di farsi sorprendere». Gli chiedemmo: ma essere un Bonomi non è il passaporto giusto anche alla Lazard? «Io lavoravo duramente come gli altri e, d'altra parte, essere un figlio di papà può essere un vantaggio o uno svantaggio: dipende da come uno si gestisce. Essere un Bonomi può anche costituire un problema, ma tre generazioni hanno lavorato prima di me per darmi un nome, che vuol dire una certa garanzia di serietà, di onestà, e questo non si può eliminare».
Già allora Andrea non nascondeva la sua grande ammirazione per la nonna, Anna Bonomi Bolchini, «la sciurà dei danée», quella che, figurativamente, portava i pantaloni. In quell'intervista si dimostrò molto preparato. Ci sembrò anche un ottimo psicologo quando espresse le differenze tra nonna e papà: Anna era stata un manager anni Sessanta, tutta istinto, estro e fantasia, con idee, però, particolarmente innovative. Il padre aveva, invece, un altro approccio, più freddo. Erano, insomma, tutti e due profondamente imprenditori, ma la nonna lavorava per istinto, per fiuto, per amore. Il babbo seguendo il ragionamento, il senso della sfida e del dovere. Sembra proprio, a sentire l'identikit dei suoi predecessori e guardando il modo con cui ha organizzato, in questi giorni, il fronte avverso a Cairo nella corsa per conquistare un Corriere pieno di debiti, che Andrea abbia preso un po' dall'una e un po' dall'altro.
La conclusione dell'intervista, in questo senso, appare significativa: «È a Milano che siamo cresciuti, qui che affronteremo le prossime sfide imprenditoriali. Ma non credo che possa andare come si è fatto finora in Italia: se è mio e lo voglio tenere, devo essere molto più intelligente, furbo e capace degli altri».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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