Economia

Si può fare a meno del rating?

Dopo i downgrade dei debiti sovrani, le società di valutazione sono finite nel mirino. E, da più parti, si è invocato un ridimensionamento, o almeno una riforma, nel senso dell’oggettività e della trasparenza. E ora...

Si può fare a meno del rating?

Tutti contro le agenzie di rating. Dopo le critiche rimediate ai tempi dei fallimenti Enron, Parmalat e Lehman Brothers, le società di valutazione sono tornate nell’occhio del ciclone con la crisi dei debiti sovrani. I downgrade inflitti a paesi in difficoltà che, con l’aiuto della comunità internazionale, stavano cercando faticosamente di rialzarsi, sono stati visti come atti inopportuni. Come un colpo di grazia capace di vanificare piani di aiuti frutto di accordi internazionali complessi e faticosi. Per certi aspetti clamorosa era stata la protesta della Commissione europea quando, lo scorso luglio, Fitch tagliò a tripla C i titoli di stato ellenici. L’operazione fu vista come vagamente sospetta, perché veniva annunciata appena dopo l’approvazione del nuovo piano di aiuti ad Atene. In quell’occasione, Pia Ahrenkilde, portavoce della Commissione Ue, comunicò il rammarico dell’organismo europeo, dichiarando il downgrade una mossa che «difficilmente si può comprendere». E ancora: «La Ue e il Fondo monetario internazionale hanno appena approvato la nuova tranche di aiuti, ed è quindi evidente come le condizioni per il nuovo versamento siano state rispettate». Nel contestare l’operato di Standard&Poor’s, Moody’s e Fitch, molti osservatori hanno ricordato che le maggiori agenzie di rating non sono società neutrali, ma sono controllate da multinazionali di industria, finanza ed editoria, soprattutto (ma non solo) americane. Da allora, si sono susseguite le proposte per contenere queste società e i loro downgrade che qualcuno ha definito «mirati». Tra le proposte avanzate, la formazione di un’agenzia gestita dall’Unione Europea, con il compito di fornire valutazioni più indipendenti e meno legate al quasi-monopolio americano; la valorizzazione di agenzie minori (europee, asiatiche e americane) che si sono spesso rivelate più affidabili; lo sganciamento dei rating dalle regole; la sospensione dei giudizi nel caso in cui i paesi siano in difficoltà; la sospensione del rating sovrano in toto. O, addirittura, la chiusura definitiva del capitolo rating. Ma è davvero possibile rinunciare a siglette alfanumeriche e stelline? Oppure è sufficiente intervenire in modo deciso sulla regolamentazione delle agenzie, fermando gli evidenti conflitti di interesse e - magari - aumentando la concorrenza, per avere valutazioni diverse e più attendibili? La domanda è stata posta ai partecipanti della tavola rotonda Si può fare a meno del rating?, organizzata per BancaFinanza da Marco Messori, amministratore unico di Mymediarelation, e moderata da Angela Maria Scullica, direttore di BancaFinanza e del Giornale delle Assicurazioni. Al dibattito hanno partecipato Marc Ahrens, ceo di Vwd Italia, Mario Anolli, preside della facoltà di Scienze bancarie, finanziarie e assicurative dell’università Cattolica del Sacro Cuore, Giuseppe Attanà, presidente di Assiom Forex, Stefano Sardelli, direttore generale di Invest Banca, Massimo Scolari, segretario generale di Ascosim, Marco Sticchi, gestore del fondo Nemesis credit opportunities e Davide Pelusi, amministratore delegato di Morningstar Italy. Ed ecco cosa hanno detto.

Domanda. Il mondo della finanza può fare a meno del rating? È possibile (o auspicabile) cancellare le agenzie di rating? Attanà.

Attualmente il mondo della finanza non sarebbe in grado di fare a meno del rating. Piuttosto, occorre eliminare o modificare tutte quelle regolamentazioni che di fatto impongono l’utilizzo di queste valutazioni. Sono troppi, infatti, i vincoli che agganciano parametri (come quelli dei requisiti patrimoniali e dei ratios di liquidità) al giudizio del rating. Per esempio: se si decide che un pool di liquidità può comprendere solo titoli governativi con una valutazione minima di rating, automaticamente vengono esclusi tutti quelli con un rating inferiore. E questo indipendentemente dalla valutazione del gestore, che magari potrebbe ritenere accettabile il rischio legato a quelle azioni. Uno stock di titoli che subisce un declassamento, dunque, viene di fatto spinto alla cessione, perché non è più utilizzabile a certi fini, a prescindere dal merito. Così, un downgrade, nella maggior parte dei casi, provoca automaticamente la vendita di alcuni asset. Un esempio recente riguarda molti investitori e istituti di credito francesi, tedeschi e di altri paesi, che avevano acquistato titoli italiani e che, dopo il downgrade, hanno dovuto scaricarli, anche se non hanno smesso di credere alla nostra economia. La priorità è, quindi, svincolare il rating dal mondo delle regole: finché questo non sarà fatto, ci saranno molte turbative sul mercato. Di questo svincolo (che, tra l’altro, è richiesto dalle stesse agenzie) si parla ormai da due anni. Ma, finora, non si è vista nessuna revisione in questo senso, neppure nelle riforme allo studio: persino la Bce ha mantenuto i vincoli con il rating. E questo è davvero un grosso inconveniente. Perché l’istituto centrale dovrebbe essere la prima istituzione a provvedere, operando uno sganciamento dalle agenzie e affermando un’autonomia decisionale secondo criteri propri. Che, è bene ribadirlo, non sono quelli del rating.

Pelusi. Siamo in un mondo in cui si tende a premiare sempre più la meritocrazia. E per capire chi è meritevole bisogna giudicarlo, valutarlo. Bene: è esattamente ciò che fa il rating. Nel nostro mondo, quindi, avremo sempre più bisogno di valutazioni, e non solo di quelle finanziarie. Leggevo che, recentemente, è stato istituito un «rating sulla legalità», per le aziende che devono partecipare a gare pubbliche. Se si è d’accordo sull’indispensabilità delle valutazioni professionali, si possono proporre vari correttivi per migliorarle: per esempio, le istituzioni possono lavorare per pretendere dalle società di rating un giudizio indipendente e trasparente, eliminare i conflitti di interesse. E, magari, per essere in grado di «giudicare i giudicanti», cioè attribuire un rating alle società di rating. Ora, persino i professori, a scuola, sono sottoposti a valutazioni. Però un conto è controllare meglio l’attività di un’agenzia di rating, un conto è farne a meno. Il che, a mio parere, è impossibile.

D. Quindi: non è in discussione il rating, ma il ruolo delle agenzie?

Anolli. Sì. L’attualità più stretta ci ha proprio fatto riflettere sul ruolo delle agenzie di rating. Sono piovute molte critiche, anche autorevoli. Come quella di Maria Cannata, direttore del debito pubblico al ministero del Tesoro, che ha ricordato come solo nel maggio 2011 le società di valutazione si siano accorte che l’Italia è un paese indebitato che non cresce. Forse, aggiungo io, potevano accorgersene un po’ prima. Questa non è stata una grande sorpresa, naturalmente. Ma ha avuto un grande impatto. Il downgrade dell’Italia e le sue conseguenze ci fanno comprendere che una cosa sono i fatti, un’altra le informazioni e un’altra ancora la loro interpretazione. Non per niente, le agenzie preferiscono definirsi come «fornitori di opinione», piuttosto che valutatori. Come accade per altre informazioni, il mondo ha imparato a interpretarle come un segnale di qualcosa che serve, un’opinione fornita da un soggetto che opera professionalmente nel campo dell’informazione e che esiste da 100 anni e che viene riconosciuto dal mercato: del resto, se questa attività fosse inutile, si sarebbe già estinta. A tutti coloro che prestano soldi interessa sapere se la probabilità di averli indietro è alta oppure no: l’analisi del merito creditizio per strumenti bilaterali come i crediti è effettuata autonomamente. Per gli strumenti diffusi sul mercato (come titoli di stato, obbligazioni o altro) il rating supporta l’analisi del merito creditizio da parte dell’investitore privato. L’agenzia di rating è il soggetto che raccoglie, elabora e distribuisce in un formato standardizzato e facilmente comprensibile (il rating) un giudizio di merito di credito. Anche alcuni soggetti per cui questo tipo di comportamento non era così necessario (per esempio, gli investitori istituzionali) hanno adottato policy che impedivano investimenti al di sotto di determinati rating (per esempio su strumenti speculative grade), magari, per evitare di assumere un eccesso di responsabilità. Quindi, possiamo farne a meno? Se per assurdo torniamo a un mercato obbligazionario integralmente basato su private placement, e cioè se vogliamo rinunciare a titoli diffusi tra il pubblico, sì. Naturalmente, questa è una risposta retorica: non possiamo farne a meno, dobbiamo solo trovare correttivi, su due linee: primo, svincolare le valutazioni dalle regole di comportamento; secondo, sciogliere i nodi del conflitto di interessi, della trasparenza. Sulla concorrenza, invece, ho un’opinione particolare. Il rating non è un lavoro facile: ci vogliono investimenti in conoscenza, sviluppi di competenze, è inevitabile che tendano a formarsi monopoli naturali. La concentrazione dell’offerta può essere stata alla base di alcuni errori (Enron, Worldcom, Parmalat, o la crisi sui Cdo derivati dai mutui subprime). Perché è potuto accadere tutto questo? Perché c’erano pochi emittenti di titoli e poche società di rating, che oltretutto si parlavano troppo tra di loro. L’approccio era sbagliato fin dal principio: le società finanziarie chiamavano le agenzie e chiedevano: «Se io strutturo il mutuo con questi parametri, che rating mi assegnate?». Il sistema ha retto per un po’. Poi, al primo scossone, ha prodotto effetti devastanti.

Pelusi. Però, anche in questo caso, il problema è il comportamento errato delle agenzie, non il rating come concetto. Ahrens. Fare a meno del rating non è possibile, perché sono le stesse necessità del mondo economico a richiederlo. Non credo che si arrivi a pensare che il rating, di punto in bianco, venga eliminato: piuttosto è necessario rivedere il modo in cui questo strumento viene utilizzato. Sono stati commessi molti errori (anche se, ne sono convinto, le valutazioni effettuate non avevano l’obiettivo di far succedere quello che poi è accaduto) e da questi si dovrà giocoforza imparare. L’esigenza principale è, quindi, evitare che si ripetano. Il mio auspicio è che, in un prossimo futuro, ci sia una maggior concorrenza, non solo (o non tanto) nel numero delle entità, ma soprattutto negli approcci. Per esempio: l’interpretazione economica anglosassone è di un certo tipo, e nel mondo ci sono culture diverse. Non necessariamente tutto deve essere visto con la stessa chiave di lettura. Quindi, un po’ più di concorrenza non guasta: se andranno a operare più agenzie di rating, con approcci diversi, il quadro sarà più completo, meno parziale. Ma attenzione: la questione della difesa di interessi particolari da parte delle agenzie si porrà sempre. Le società di rating cinesi difendono interessi cinesi. Se nascesse un’agenzia governativa Ue, tutelerà interessi europei. Però, se sul mercato ci sono diverse visioni, l’investitore potrà confrontare i giudizi e scegliere quello che lo convince di più. O fare un mix fra le varie valutazioni.

Scolari. Gli aspetti normativi e regolamentari sono in grande movimento. E non solo in Europa. Negli Stati Uniti, per esempio, hanno varato cambiamenti per evitare un eccessivo affidamento ai rating, ma anche per aumentare il numero dei soggetti autorizzati. Fino a poco tempo fa, potevano operare solo poche società, mentre ora si è allargato il campo. Questa tendenza si è vista anche in Europa: un anno fa, il numero delle agenzie iscritte nelle liste Efma era molto limitato: fino allo scorso ottobre, anche Standard&Poor’s, Moody’s e Fitch erano in attesa di certificazione. In ogni caso, la nuova disciplina Ue porterà la nascita di nuove società con sede nel nostro continente. Anche perché l’Europa, su questo fronte, è in ritardo. In vari paesi asiatici (in particolare in Giappone, ma anche in Corea e Malaysia), le prime società di rating sulle emissioni domestiche sono state avviate negli anni Ottanta, e hanno già una discreta storia alle spalle. È vero che in campo internazionale non contano moltissimo (stanno iniziando solo ora a entrare nei mercati nordamericano ed europeo), ma a casa loro hanno una quota molto rilevante, che tocca il 70%-80% sulle emissioni domestiche. Queste agenzie asiatiche hanno concordato da tempo l’adozione delle regolamentazioni Iosco. Quindi: gli Stati Uniti hanno una storia centenaria e l’Asia ha già costruito una storia del rating interno. Chi non si è mossa è l’Europa. È il nostro mercato che sconta un ritardo. Detto questo, dobbiamo tenere conto del fatto che sui giornali è molto discusso il tema dei rating governativi. Che tra l’altro sono iniziative non sollecitate (si sta discutendo, tra le altre cose, se rendere possibili o meno i rating sovrani che non vengono richiesti). Ma gran parte delle valutazioni provengono dal settore corporate. E in questo sono stati commessi errori clamorosi, come Enron, Parmalat, Lehman e via dicendo; ma guardando i numeri totali dei default, la percentuale dei giudizi errati si abbassa notevolmente. È vero, il rating non può essere l’unico elemento da tenere in considerazione, ma è certamente qualcosa di cui non si può fare a meno. Fin dai tempi di John Moody, che aveva organizzato un sistema di pony express per fornire le prime informazioni ai finanziatori delle nuove ferrovie americane sull’andamento dei lavori. Ai tempi (e ciò è andato avanti per 70 anni) le società di rating erano finanziate dagli investitori: le analisi erano fatte per loro, e loro le pagavano, non certo gli emittenti. Negli anni Settanta, però, è arrivata la fotocopiatrice. Questo cambiamento tecnologico ha reso duplicabili i prodotti, rimescolando le carte. Da quel momento, le società di rating hanno deciso di svoltare, e hanno iniziato a rivolgersi agli emittenti. Però, qualcuno che si fa pagare rigorosamente dagli investitori c’è ancora: penso a una piccola agenzia americana (Egan-Jones Ratings company), che a differenza di quelle più famose è riuscita ad anticipare alcuni giudizi - primo fra tutti, quello su Enron - molti mesi prima rispetto al crack. I modelli risultano essere diversi a seconda di chi è il committente. Ma queste società sono mediamente più severe. Sì, perché qui sta il punto: se si arrivasse a società di rating per i privati, i giudizi potrebbero rivelarsi meno generosi.

Sardelli. Il vocabolario del 2011 è stato arricchito da due termini: uno è lo spread, l’altro è il rating. Ormai, ne parlano anche la massaia, e l’uomo della strada. Nell’immaginario popolare, al rating vengono attribuiti molti significati, ma in realtà pochi sanno che questa sigletta non è altro che un voto. Nulla di più. A questo voto è stata attribuita un’importanza eccessiva, quasi a credere che la valutazione, da sola, potesse fornire la fotografia di un’impresa, di un paese o di un’intera area economica. Un parallelo può essere fatto con i voti che, una volta, si attribuivano a scuola. Anche in ambito scolastico ci sono state varie spinte alla riforma di questo istituto, finché non si è deciso di sostituire i voti numerici con i giudizi. Con questa innovazione, si è cercato di evolvere dalla sintesi di un numero a un chiarimento più elaborato sulla situazione dello studente. Nel rating, le siglette - o le stelline - non si possono sostituire: quindi, visto come viene operata la valutazione, è necessario realizzare una maggiore trasparenza nell’esposizione del «voto». E occorre anche dare tempo alle agenzie, per metterle in condizioni di rendere più precise le loro analisi. Un processo che, per esempio, è stato compiuto sulle cartolarizzazioni: nel 2002-2003 si utilizzava una certa metodologia; poi (per incompetenza e, forse, per connivenza) le agenzie si sono trovate coinvolte nella crisi dei subprime, e successivamente la metodologia è mutata. Molti osservatori sono d’accordo nell’affiancare al rating altri strumenti di valutazione, ma, in questo caso, tutti devono fare la loro parte. Spesso gli istituti di credito, per i loro investimenti, si affidano al rating in modo opportunistico. Preferiscono tracciare la linea di demarcazione tra gli investimenti più o meno buoni sulle doppie A, o sulle triple B, scaricando tutta la responsabilità su queste «sigle». Questo significa attribuire un’importanza ancora maggiore alle società di rating. Insomma, si corre il rischio di esasperare questo strumento: è forse il momento di studiare altri meccanismi con cui contemperarlo.

Scolari. Quando si parla di «scarico di responsabilità» bisogna, però, fare dei distinguo. Poniamo l’esempio di un gestore di fondi che, da un momento all’altro, non è più autorizzato a utilizzare un rating come benchmark per gli investimenti. Sarà davvero più tranquillo? È vero che il gestore è un professionista: probabilmente, senza agganciarsi al rating, otterrà performance ancora migliori. Ma forse potranno «scappargli» strumenti non di prim’ordine all’interno del prodotto che offre al cliente. Già, il cliente. Come reagirebbe se, da un momento all’altro non ci fosse più un riferimento ai rating? Tutto questo per affermare che sì, i modelli interni devono essere sviluppati, ma – se poi accadesse qualche incidente dovuto all’assenza di correlazione con un rating effettuato da una società esterna – la situazione da fronteggiare sarebbe molto critica.

D. Non è che le agenzie di rating siano andate oltre le loro competenze?

Sticchi. Vorrei fare due considerazioni. Primo, dal punto di vista degli operatori, il rating ha solo un valore segnaletico: rappresenta la fotografia del credito in un dato momento. È un’opinione, una previsione probabilistica: quindi è fallibile per definizione. Utilizziamo il rating per costruire performance? Assolutamente no: una delle caratteristiche che contraddistinguono le agenzie di rating è che le loro previsioni arrivano sempre dopo il mercato. Noi costruiamo performance sui nostri fondi con ricerca interna e competenze di mercato. Alle agenzie di rating si può semplicemente chiedere di dare un’indicazione del valore del credito in quel momento. Per tanto tempo le agenzie sono state criticate per essere lente: cioè per dare giudizi negativi quando l’emittente era già sull’orlo del fallimento. La mia impressione è che, con il passare degli anni, le società di rating abbiano cercato di essere più «proattive» per stare al passo con il mercato. Grave errore, perché le agenzie non possono mai battere in velocità il mercato. Lo si è visto anche sui rating sovrani. Un terreno più difficile del solito, perché la qualità di credito di un «sovrano» è influenzata da valutazioni di tipo politico. Nell’esaminare le probability of default dei vari paesi, le agenzie hanno infatti attinto a piene mani a elementi di breve periodo e legati al sentiment. E questo non appartiene alle loro competenze: quelle sono considerazioni tipicamente di mercato. Le agenzie dovrebbero basare i loro giudizi quanto più possibile su considerazioni fondamentali e di lungo periodo. In questo modo, il rating potrebbe rappresentare un indentikit duraturo del credito. E gli investitori «passivi» che lo utilizzano devono tener conto che, a ogni valutazione, si associa una certa probabilità di default durante la vita del bond. Seconda considerazione: ci sono alcuni casi in cui i cambi di rating hanno un impatto di mercato. Ciò è dovuto ad alcuni meccanismi nelle istituzioni finanziarie, che tendono a creare un circolo vizioso. Per esempio, alcuni fondi hanno per statuto il vincolo a non investire in titoli con rating inferiori a BBB; se il rating scende sotto quella soglia, quei fondi sono costretti a vendere. Poi ci sono tanti strumenti, regolamenti e istituzioni che si «agganciano» al rating. Le norme di Basilea sono basate sui rating e la Bis li utilizza per le proprie regole di collateral, così come le clearing houses. A volte i prestiti delle banche alle aziende sono richiamabili se l’azienda scende sotto la tripla B. Gli step-up coupons prevedono che la cedola del titolo salga se il rating scende, il che fa aumentare il costo del capitale per un’azienda che ha subito un downgrade. Tutti questi meccanismi innescano un circolo vizioso: il prezzo di un titolo scende, poi il rating viene abbassato, si verifica una vendita forzata dei titoli e il prezzo scende ancora. Ci sono poi due fattori che accentuano il circolo vizioso: la probabilità di default e il leverage. La prima perché si muove in modo esponenziale (basta ricordare che, in un orizzonte di cinque anni, per una tripla A è dello 0,08%, per una tripla B dell’1,6% e per una singola B del 20,7%). Il secondo perché molte istituzioni finanziarie sono - appunto - «levereggiate»; quindi, se si investe con un rapporto di indebitamento, c’è bisogno di uno stop loss, altrimenti si rischia di perdere tutto.

D. Uno dei problemi del rating sovrano è che i criteri con cui sono effettuate queste valutazioni sono molto politici, dettati da regole che non sono così evidenti e trasparenti. Oltre a una regolamentazione, non sarebbe il caso di combattere il rischio di conflitti di interesse con un’apertura più decisa alla concorrenza, magari concedendo più spazio alle agenzie più piccole che si stanno affermando?

Attanà. Aumentare le agenzie di rating potrebbe contribuire a fornire più informazioni agli investitori, e soprattutto a garantire esami e visioni del rischio differenziati. Ma attenzione: più che molte società, occorrono culture differenti. In particolare, è interessante il progetto che l’Esma sta studiando ruotare le agenzie di riferimento ogni anno sugli emittenti maggiori e ogni tre su quelli minori. Ma in questa eventualità occorrerebbe pure disporre di un numero ben più elevato di agenzie di rating. In ogni caso, la necessità di maggior concorrenza o di regolamentazione dell’attività delle agenzie è decisamente importante. Prima della crisi non se ne sentiva il bisogno, perché eravamo abituati all’attribuzione meccanica di rating alti. Molti paesi erano in tripla A. E, da quando si sono diffusi i downgrade, si è propagata la paura. Va ricordato che il rating esprime la probabilità di default di un Paese. Alla luce di questo dato, la classificazione BBB che ha avuto l’Italia significa che il rischio di fallimento, in un anno ha una percentuale di probabilità del 2 per mille. Ci si chiede, allora, per quale motivo un investitore professionale dovrebbe disfarsi dei nostri titoli sulle scadenze più brevi. Che, a fronte di un rischio default del 2 per mille, offrono un rendimento assai elevato. A che cosa serve questo esempio? A farci capire che è necessario migliorare la cultura del rating: bisogna comprendere che cosa significano quelle siglette, che cosa comportano i giudizi attribuiti dalle agenzie. È vero, una spiegazione ufficiale delle valutazione c’è... ma è di 200 pagine, e ben pochi la leggono. Finora, nessuno ha sentito l’esigenza di cambiare questa situazione: come ho già detto, le condizioni macroeconomiche erano diverse, le triple A venivano concesse con generosità e le valutazioni delle agenzie avevano un impatto limitato. Ora è tutto cambiato, e bisogna informare di più. Infine, due parole sul conflitto di interessi che emerge dal fatto che, di norma, sono gli stessi soggetti valutati a pagare per il servizio di attribuzione del rating. Va detto che il conflitto può sussistere anche nel caso in cui fossero gli investitori a pagare. Il problema è quasi ineliminabile, mentre si potrebbe cercare di limitarne la portata con un pacchetto di provvedimenti che riguardano le responsabilità civili e penali.

Pelusi. È vero, il conflitto di interesse è difficilmente eliminabile, anche nelle realtà che hanno cercato di differenziarsi dai modelli più in voga. Quindi, non possiamo pensare di cancellare questo problema scegliendo altre soluzioni come, per esempio, quella dell’agenzia governativa europea, che a mio parere non è un sistema credibile. Perché creerebbe un conflitto di interessi ancora maggiore di quello attuale. Infatti, se davvero questo organismo venisse costituito, il «controllato» diventerebbe anche «controllante». Come fare, allora? Forse cambiando il business model delle agenzie di rating: fino a quando queste società si fanno pagare dalle aziende giudicate, rimarranno parecchi dubbi sul loro operato, anche se la loro professionalità è riconosciuta. Qualsiasi soluzione si scelga, comunque, non si può prescindere dal rating, che non potrà essere cancellato. A tal proposito mi chiedo: a chi non fa comodo? Chi lo vorrebbe eliminare? La mia risposta è semplice: chi ha scheletri nell’armadio. E aggiungo: se ci si limitasse al rating on demand, cioè richiesto e sollecitato dall’azienda, solo quelle con i conti in ordine ne farebbero richiesta. Bisognerebbe, invece, fare in modo che tutte fossero assoggettate a giudizio.

Ahrens. Il settore finanziario ha una predilezione per le cose semplici che costano poco, e il rating è una di quelle. Però si basa sul passato, ed è difficile vincolare investimenti su fatti ed eventi già avvenuti. L’idea della rotazione, invece, è praticabile, ma sarà fattibile? Perché sicuramente non saranno pochi a remare contro questo eventuale cambiamento.

Anolli. Gli emittenti (e non i sottoscrittori di titoli) pagano le agenzie di rating, è vero. Ma in questo non vi è nulla di particolarmente inspiegabile, perché proprio gli emittenti hanno interesse ad avere una certificazione della loro affidabilità. Il conflitto di interessi c’è, non dico di no, ma non penso che le agenzie di rating retrocedano obbligazioni di uno stato sovrano con secondi fini. Sanno che, se sbagliano, possono andare incontro ad azioni legali. Inoltre mettono in gioco la loro reputazione: se commettono troppi errori, la gente smette di seguirle. Insomma, non credo che ci sia un grande burattinaio: semplicemente, possono essere stati commessi errori di sottovalutazione del rischio in alcune fasi storiche e di eccessivo nervosismo in altre fasi, come quella attuale. La soluzione è correggere i punti deboli che si sono evidenziati e fare sì che gli utenti del rating (investitori) lo considerino come elemento importante, ma non come fattore da assumere come elemento di decisione automatico e acritico.

Scolari. Anche dieci anni fa l’Italia era indebitata, è vero. Ma la situazione attuale è nettamente diversa: a causa del contesto di instabilità dell’eurozona, i mercati vanno per eccesso. L’opinione di Maria Cannata è giusta: i rating sovrani sono valutazioni di tipo politico che contrastano con quelle di tipo tecnico. E questo è ampiamente criticabile. Ma non altrettanto opinabile è l’urgenza di una correzione di tiro per la situazione economica italiana. In futuro le valutazioni politiche peseranno ancora nelle valutazioni delle agenzie? E, più in generale, quale sarà il futuro del rating sovrano? In generale si ridurrà il divario oggi esistente nei rating dei paesi industrializzati e rispetto alle economie emergenti. Ma le proposte che mirano a sospendere i rating nel caso in cui un paese sia in difficoltà, proprio non mi convincono. Perché la notizia di un blocco delle valutazioni avrebbe, sul paese in questione, un impatto ancora peggiore di quello che attualmente ha un downgrade. Con una facile conseguenza: tutti si affretterebbero a vendere i bond emessi da quello stato.

Sticchi. Rispetto alla difficoltà di assegnare un rating ai «sovrani», ripeto che le agenzie dovrebbero limitarsi a criteri quanto più possibile oggettivi e quantificabili. E concentrarsi per produrre un identikit duraturo del credito ed evitare di rincorrere il mercato con considerazioni legate al momento politico e di breve periodo, perché questa è una battaglia persa in partenza. Per quanto riguarda il conflitto di interessi, questo è un falso problema nel contesto della crisi europea. Questo fattore, per cui le agenzie sono pagate dall’emittente, tenderebbe infatti -ad alzare il rating, come successe con i Cdo. Invece, ora le agenzie vengono ingiustamente accusate del contrario, cioè di essere troppo severe con i sovrani. Anche il favorire la concorrenza tra le agenzie di rating, per quanto la competizione sia un principio generalmente auspicabile, è, a mio parere, un falso problema nell’attuale dibattito. Basti pensare che le agenzie di rating sono state fatte facile bersaglio di critiche e soggette a ritorsioni politiche in situazioni diverse. Sia in Europa, sia in America. Questo è piuttosto un segnale della loro relativa indipendenza. Il messaggio prevalente che è stato fatto passare nei media durante la crisi europea è che le agenzie di rating siano la causa contingente dei ribassi di mercato, in quanto scatenano la speculazione. Niente di più falso. Come dicevo prima, le agenzie seguono il mercato piuttosto che anticiparlo, e la cosiddetta speculazione è un sintomo dei problemi piuttosto che la causa. Il vero problema è che per 30 anni il sistema finanziario dei paesi occidentali è cresciuto attraverso l’utilizzo della leva del debito. Questa situazione non può durare per sempre: c’è un limite, oltrepassato il quale la crescita si ferma. Ecco, abbiamo forse raggiunto quel limite. E ora che cosa accadrà? Succederà che interi sistemi economici dovranno passare attraverso un processo di deleveraging. Insomma: i problemi dei debiti sovrani sono sotto gli occhi di tutti. Poi è ovvio, i rating sono fatti da uomini, i quali possono sbagliare e sono influenzabili da una serie di fattori. Ma escludo che il conflitto di interessi abbia giocato un ruolo in questa fase: intendiamoci, questo problema esiste ed è evidente, ma usarlo nel contesto dei debiti sovrani è un errore.

Sardelli. È impossibile eliminare le agenzie di rating, lo ribadisco anch’io. Piuttosto, occorrerebbe avviare una forte azione di trasparenza sulla loro governance. Un’azione che si dovrebbe estendere anche alle autorità qualora nascessero agenzie pubbliche. Ma l’autonomia di giudizio delle agenzie di rating deve essere salvaguardata: queste società devono conservare la libertà di poter fare il loro lavoro, ma, nello stesso tempo, si devono impegnare per portare la trasparenza a un livello più alto. A tal proposito, l’intervento normativo serve, ma occorre qualcosa in più. E cioè, bisogna riappropriarsi dell’etica.

Tuttavia, questa consapevolezza non riguarda solo le agenzie di rating, ma coinvolge un po’ tutti noi.

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