Caro direttore
ho letto con attenzione il tuo fondo di ieri sui banchieri no global. Dici che salgono sui tralicci contro la manovra del governo che toglie loro alcune commissioni sui servizi bancari che definisci «odiosi balzelli che si aggiungono al costo del conto». Facciamo uno strappo alla regola. Rinuncio alla mia zuppa del sabato (sai che rinuncia per i lettori) e ti chiedo in cambio un po’ di spazio sul Giornale per dirti per quale motivo non sono d’accordo con te.
Sgombriamo subito il campo da un possibile equivoco. Non sono qua a difendere i vertici dell’Abi che si sono dimessi in blocco. E la considero, come te, del tutto fuori registro. E men che mai ho voglia di giustificare alcuni comportamenti negativi che ogni impresa (compresa quella bancaria) ha nella pratica quotidiana. Però, caro direttore, il punto è proprio questo, vorrei difendere un principio, e cioè quello della libera determinazione del prezzo da parte delle imprese. Tutto sommato è una pratica che un foglio liberale come il nostro conviene che mantenga, anche quando tutto intorno crolla.
Ebbene le banche sono imprese e come tutte le imprese debbono fare profitti, unico metro del loro successo. A noi il profitto, anche quello degli altri, piace. E si badi bene: ogni impresa ha un «ruolo sociale». Forse un panettiere è meno utile al benessere della collettività di un banchiere? Entrambi, su piani diversi, producono beni e servizi indispensabili. L’idea di associare alle banche fini terzi, che pure esistono, come la crescita del Paese, l’aumento del Pil, il finanziamento a pioggia di tutte le imprese in momenti di crisi come questo, è pericolosa. Dove ci fermiamo, caro direttore? Quando scopriremo che i gestori dell’energia elettrica fanno troppi (ma chi definisce il troppo) profitti che facciamo? O i venditori di petrolio? O i supermercati?
Insomma hai capito dove vado a parare. Stabilire per decreto il prezzo di un bene o di un servizio è un obbrobrio dal punto di vista liberale. Non ci può piacere un esecutivo che entri nel conto economico di un’impresa (fossero anche le odiate banche) per stabilire la dimensione del suo ricavo. Le commissioni per una banca questo sono. Lo stato già stabilisce l’interesse massimo a cui una banca può vendere la propria merce (e anche su questo ci sarebbe molto da dire), e se ora si mette pure a stabilire quali commissioni può pretendere siamo fritti. Dove fermarsi? E a quale settore limitarsi? Riprendiamo il nostro esempio banalotto. In momenti di crisi, perché non decidere di calmierare (cioè fissare per legge il prezzo) di prodotti e servizi di largo consumo. È accettabile il pane a X euro al chilo? E le zucchine? E il latte?
Sì certo le banche spesso giocano sull’ambiguità del loro ruolo: di rilievo pubblico quando fa loro comodo e privato quando non rischiano. Ma allora si intervenga per spezzare questa opacità, non già per renderle di fatto sovietiche nella determinazione dei loro ricavi.
Infine c’è un elemento pragmatico. Ti ricorderai come anche Bersani fece qualcosa di dannatamente simile sulle ricariche telefoniche, vietando l’applicazione di certi costi. Il tutto si risolse nell’adeguamento delle tariffe (anche se nessuno l’ammetterà ufficialmente) ai mancati introiti dovuti al decreto governativo. In un mondo che resta aperto e concorrenziale, le imprese sono sempre in grado di traslare sugli utenti finali il maggior costo della regolamentazione.
Vorrei finire scandalizzandoti del tutto. Trovo sbagliato che il governo da una parte obblighi gli italiani a non usare il contante (ad esempio per le pensioni più basse impone l’accredito su un conto corrente) e dall’altra imponga alle banche di farsene carico applicando zero costi alla propria nuova clientela. C’è qualcosa che non va. Il governo vuole davvero e meritoriamente che tutti viaggino con moneta elettronica? Perfetto: dia una piccola defiscalizzazione a chi si fa accreditare la pensione in banca.
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