Economia

Tetto agli stipendi pubblici: scoppia il caos

Pronto ora un contro-emendamento del governo per ritornare al provvedimento precedente, ma rimane aperto il dibattito se gli stipendi degli alti vertici dello Stato devono essere considerato soltanto un "costo"

Tetto agli stipendi pubblici: scoppia il caos

Il governo Draghi vuole ristabilire il tetto agli stipendi pubblici fissato a 240mila euro e scardinato nella versione del Dl Aiuti approvato al Senato nelle scorse ore. La misura, lo ricordiamo, fa riferimento a un vincolo introdotto nel novembre 2011 col Decreto Salva-Italia (Dl 201/2011, articolo 23-ter) che segnò la prima azione di spending review del neonato esecutivo di Mario Monti ed è stata aggiornata nel 2014 all'inizio del governo Renzi.

Draghi è indicato come furioso da fonti vicine a Palazzo Chigi per una mossa che ritiene lesiva della capacità di incidere del Dl Aiuti e un pessimo messaggio al Paese in una fase difficile nelle fasi finali del suo governo. La modifica, che Draghi con un contro-emendamento del governo da presentare alla Camera vuole annullare, permette di aggirare il limite consentendo gli adeguamenti ai contratti collettivi nazionali delle retribbuzioni di un ristretto gruppo di boiardi e di alti vertici della pubblica amministrazione.

Il Sole 24 Ore li ha indicati: sarebbero toccati dalla norma "i vertici delle Forze armate e dei ministeri. Rientrano nel gruppo il capo della polizia, i comandanti generali di Carabinieri e Guardia di Finanza, il capo dell'amministrazione penitenziaria, i capi di Stato maggiore di difesa e Forze armate, il comandante del Comando operativo di vertice interforze, e il comandante generale delle Capitanerie di Porto. Ma, soprattutto, accanto a loro ottengono la deroga tutti i capi dipartimento e i segretari generali di presidenza del Consiglio e ministeri". Il cosiddetto "trattamento accessorio" legato alle componenti extra lo stipendio potrà essere oggetto di rivalutazione e consentire ai boiardi di Stato di andare oltre i celebri 240mila euro se il contro-emendamento del governo non passerà. E sul tema si apre un dibattito acceso che richiama a una questione annosa: in che misura gli stipendi degli alti vertici dello Stato devono essere considerato un "costo" e in che misura, invece, una garanzia per attrarre competenze e capacità ai vertici dell'amministrazione?

Il paradosso delle partecipate

In primo luogo, si può discutere, che una sorta di rivalutazione potrebbe essere valida se legata al problema del contrasto all'inflazione e dunque ancorare stipendi vincolati a un tetto formale al costo della vita. Ma, anche a causa del ritardo della riflessione in materia in Italia, questo dovrebbe essere incluso in un generale piano di gestione della spirale prezzi-salari capace di trasmettersi al settore privato.

C'è poi, tra gli studiosi di pubbliche amministrazioni, la questione circa il fatto che il tetto, per quanto considerevole in termini di massimali, non arrivi a coprire stipendi paragonabili per ruoli di alta responsabilità nel settore privato e si può fare una serie di esempi di alti funzionari dello Stato passati a ruoli nel settore privato, come ad esempio l'ex direttore dell'Aise Alessandro Pannsa passato a Sparkle o l'ambasciatore Giampiero Massolo divenuto presidente di Fincantieri prima e di Atlantia poi. In un'epoca in cu il pantouflage, ovvero il sistema di porte girevoli tra pubblico e privato, è sempre più rafforzato bisogna sicuramente tenere in considerazione questo dato di competitività. Per un capo di gabinetto o un alto funzionario lo stipendio di 240mila euro massimi è sicuramente attrattivo, ma società industriali e banche possono garantire soglie più alte. Anche se, va detto, la presenza negli apprati pubblici dà il là a una serie di relazioni interpersonali, capitali immateriali ed entrature che le figure possono spendere attivamente nel proseguio della loro carriere.

Infine, bisogna capire in che misura questo tetto possa essere equo laddove in mondi non direttamente riferibili ma comunque collegati allo Stato e agli enti locali come le imprese partecipate, che agiscono da enti privati ma hanno una forte componente interna di capitali pubblici, esso viene ampiamente sforato. Claudio Descalzi, ad di Eni, che anche grazie all'impennata dei prezzi di gas e petrolio ha guadagnato nel 2021 quasi 8 mln di euro. Claudio Descalzi, ad di Eni, nel 2021 ha guadagnato sei milioni di euro e si è classificato ventunesimo nella classifica generale di tutti i manager di società quotate italiane per retribuzione complessiva, seguito da Marco Alverà (ex ad di Snam) con 4,6 milioni e Francesco Starace (Enel) con 4,5 milioni. Tra il milione e il milione e mezzo di euro gli stipendi di Alessandro Profumo, ad di Leonardo, Matteo Del Fante, ad di Poste Italiane e Giuseppe Bono, ad di Fincantieri.

Per nessuno di questi manager, chiaramente, un tetto a 240mila euro sarebbe concorrenziale nella corsa col privato non partecipato, ma al contempo si può aprire un dibattito sul fatto se considerare o meno tali società come, di fatto, le propaggini dello Stato che sono nella sostanza. E dunque aprire una riflessione a tutto campo su come differenziare un tetto che, va detto, risale all'era dell'austerity pubblica. Sicuramente il rischio di confondere un dato strutturale come i costi dell'amministrazione pubblica e i problemi contingenti legati alla povertà e al caro-bollette rischia di aprire un discorso populista e problematico. Il limite tra considerare i maxi-stipendi un costo a priori e ritenerli un viatico per l'attrazione di competenze è sottile e apre a semplici strumentalizzazioni.

Risultando un tema che il prossimo Parlamento dovrà necessariamente affrontare.

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