
Per anni ce l’hanno detto, psicologi da salotto, genitori in preda al panico, opinionisti convinti che un controller fosse l’anticamera dell’apatia: i videogiochi fanno male, rovinano la mente, distruggono le relazioni, ti allontanano dalla vita vera. Come se sparare a un mostro su uno schermo fosse peggio che urlare in tangenziale, come se per stare bene bisognasse per forza fare jogging alle sei del mattino.
E invece, guarda un po’, gli studi iniziano a dire il contrario, sempre più spesso. L’ultimo è quello dell’ESA, l’Entertainment Software Association, che ha intervistato oltre mille veterani americani. Il 77% di loro dice che i videogiochi hanno migliorato la loro vita. L’85% li ha usati per rilassarsi durante il servizio. Il 78% parla di morale rafforzato, il 74% di benefici mentali ed emotivi. Non esattamente le percentuali di un passatempo pericoloso.
Il veterano medio ha 37 anni, una laurea, figli, un lavoro a tempo pieno, e gioca con costanza. Ama le console più del PC, gli sparatutto più dei puzzle game. Fa squadra, coopera, si diverte, e magari (chissà) proprio con me, online, mentre io lo insultavo perché mi aveva fregato l’ultima kill. Chissà quanti ne ho incontrati in partita, senza sapere che stavano curando qualcosa che non si vedeva sulla minimappa. Gente che combatteva per restare in piedi, e io lì a lamentarmi perché non avevano marcato il nemico.
Certo, se poi un ragazzo si rimbecillisce tutto il giorno davanti a un videogioco, è un altro discorso, però probabilmente si sarebbe rimbecillito lo stesso con altro: con TikTok, con i gratta e vinci, con i podcast di gente che urla “alzati e fattura”, con video motivazionali da palestra spirituale, con reality in cui si litiga per un toast.
E poi, diciamolo: io ho perfino una vita sociale, ogni giorno ho compagni diversi, internazionali, con alcuni faccio amicizia, gente che gioca da Tokyo, Berlino, New York, Liverpool, e una ragazza sudafricana di Cape Town che gestisce casinò online ieri mi ha aggiunto su Instagram. Non ci siamo mai parlati, ma c’è stima reciproca e comunque meglio questo che sorbirsi l’apericena con quello che ti mostra le stories del figlio.
Il bello è che non è solo questo studio: ce ne sono tanti, sempre di più. Sull’impatto positivo dei videogiochi su ansia, depressione, dolore cronico, solitudine, solo che questi dati interessano meno, non fanno abbastanza scandalo, non permettono di gridare all’allarme, e così si continua a raccontare la stessa storiella: i videogiochi fanno male.
Io, beninteso, non ho mai pensato che mi avrebbero salvato, né tutti i libri che ho letto, né tutti i libri che ho scritto, tuttavia so cosa hanno fatto per me quando tutto il resto sembrava spento: hanno tenuto connesso, sveglio, dentro qualcosa.
I videogiochi non fanno male, fanno bene, a volte fanno benissimo. Per carità, non risolvono tutto. Non ti pagano le bollette (per gli streamer e youtuber di successo anche quelle in realtà), non ti spiegano la vita (meglio), non fanno sparire i problemi con un quicksave, però aiutano più di una riunione motivazionale con slide in Comic Sans.
Se qualcuno ancora non se ne capacita, è solo perché o è troppo vecchio (quelli che da adolescenti anziché andare in sala giochi hanno fatto il Sessantotto, va benissimo, però a ascoltarli ci si annoia a morte), o è Paolo Crepet, oppure ha perso troppe partite da piccolo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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