La speranza - come tutti sappiamo - è l'ultima a morire. È probabilmente ispirandosi a questo detto popolare che tra i politologi delle due rive dell'Atlantico serpeggia una nuova teoria: molte delle turbolenze dell'ultimo anno sono state legate al gran numero di elezioni in programma, e alla conseguente necessità delle rispettive classi politiche di andare a caccia di voti con comportamenti, promesse e talvolta decisioni irresponsabili. Ora che, alle consultazioni che contano davvero (sempre che in Italia non abbiamo un bis prima della fine del 2013) mancano solo quelle iraniane di maggio e quelle tedesche di settembre, dovremmo pertanto entrare in un periodo di relativa calma, in cui i molti problemi che ci affliggono potranno essere affrontati in maniera più razionale. Naturalmente, solo fino al prossimo giro, che comincerà in Gran Bretagna nel 2015.
La teoria contiene alcune verità inconfutabili: le presidenziali francesi della scorsa primavera sono all'origine della frenesia di Sarkozy di attaccare la Libia (con tutte le conseguenze che ne sono derivate) e, in seguito al successo di Hollande, dell'incrinarsi dell'asse Parigi-Berlino intorno al quale ruotava la Ue. Le elezioni russe - ammesso che vogliamo considerarle tali - hanno contribuito all'irrigidimento di Putin nei confronti dell'Occidente e al conseguente ritorno, su molte questioni, a un clima da guerra fredda. Le elezioni americane hanno indotto Obama ad annunciare un - sicuramente prematuro - ritiro dall'Afghanistan e, nel rendere più aspra la contesa tra repubblicani e democratici, hanno reso ancora più difficile la soluzione dei problemi di bilancio del Paese. Le elezioni israeliane hanno costretto il premier Netanyahu da un lato a un irrigidimento sul problema degli insediamenti ebraici nei territori palestinesi, dall'altro a minacciare un intervento armato per fermare la corsa all'atomica iraniana. Le elezioni egiziane, le prime apparentemente libere nella storia del Paese, hanno in realtà accentuato lo scontro tra le varie fazioni e accresciuto il potere degli islamisti. Infine, abbiamo avuto quelle italiane, che oltre a creare i ben noti problemi interni, stanno avendo conseguenze sulla stabilità di Eurolandia.
Ora aspettiamo di vedere se il successore di Ahmadinejad (che non può ripresentarsi) sarà altrettanto, o addirittura più, risoluto nello scontrarsi con l'Occidente sulla questione dell'arricchimento dell'uranio e a battersi per cancellare l'odiata «entità sionista» dalla faccia della terra. Ma, soprattutto, guardiamo a Berlino, dove la signora Merkel gode di una popolarità personale di gran lunga superiore a quella del suo avversario socialdemocratico Steinbrück, ma non è affatto sicura di ottenere, con gli attuali alleati liberali, una maggioranza al Bundestag: ed è perfino inutile dire quanto un cambio di coalizione di Germania si rifletterebbe sull'intera Europa.
È possibile speculare all'infinito su quale diversa piega avrebbero preso le cose senza i succitati condizionamenti elettorali.
Ma, dato che la storia non si fa con i se, perché quelli che potremmo battezzare i neo-ottimisti ritengono che, almeno da settembre in poi, le cose dovrebbero andare meglio? In estrema sintesi, perché i leader del mondo, non avendo da affrontare a breve le urne, saranno meno condizionati nelle loro decisioni.
In alcuni casi, dovremmo poter costatare tra breve se la teoria ha qualche fondamento nella realtà. Per esempio, potremmo vedersi realizzare finalmente in America quel compromesso tra democratici e repubblicani per il risanamento dei conti pubblici che è indispensabile a tutto il mondo.
Per esempio, potremmo vedere un nuovo governo israeliano, molto più equilibrato del precedente, aprire una nuova fase nell'eterno conflitto con i palestinesi.
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