di Giuseppe Marino
Tanti commentatori hanno già trovato la quadra: a spiare è l'amministrazione Obama ma la colpa è di Bush, che con il suo Patriot Act ha instaurato la dittatura della sicurezza occhiuta. Inutile sottolineare che il Patriot Act aumenta i poteri di controllo ma di certo non obbliga l'amministrazione in carica allo spionaggio su larga scala. Né rammentare che proprio Obama firmò nel 2011 l'estensione per quattro anni di quella legge «liberticida»: le parti in questa commedia sono già scritte e, specie in Italia, guai a dire che ora il cattivo è quel presidente così elegante, così sinceramente democratico e così mondo da anti estetiche gaffe. E probabilmente ai pasdaran nostrani basteranno le flebili spiegazioni fornite ieri dal presidente americano: «Le telefonate non vengono ascoltate, non c'è violazione della privacy». Il «capo del mondo libero» si arrampica sugli specchi, ma in realtà non è così lontano dal vero: in tutta questa storia la privacy non è il primo problema. La maggior parte dei dati che immettiamo su internet non sono davvero privati. Pensiamo ai social network: sono diari in cui annotiamo stralci della nostra vita, ma lo scopo è proprio di condividerla. Oppure le mail: chiaro che sono private, ma sappiamo tutti che è uno strumento protetto da un livello di sicurezza infimo: i nostri «segreti» attraversano decine di computer prima di arrivare a destinazione e in casa e al lavoro sono a una password (spesso «123456» o la data di nascita) dall'essere a portata di curioso. Il vero problema non è la privacy, ma la reputazione. Senza entrare nel merito della colpevolezza o dell'innocenza, quando scoppiò il giallo del delitto di Perugia, Amanda Knox e Raffaele Sollecito si ritrovarono marchiati a fuoco anche per le foto su Facebook in cui maneggiavano mitra e coltelli per gioco.
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