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La crisi delle guerre "made in Usa"

Opinioni pubbliche occidentali sempre più scettiche: esportare la democrazia non funziona

In dodici anni l'Occidente, capitanato dagli americani, ha combattuto tre guerre ed il presidente Usa, quasi in solitaria, vorrebbe lanciarne un'altra contro Damasco. Però dall'Afghanistan alla Libia passando per l'Iraq, la voglia di intervento ha perso smalto.

Dopo l'11 settembre 2011 i B-52 a stelle e strisce, che martellavano le postazione talebane a nord di Kabul, avrebbero dovuto liberare per sempre il disgraziato Paese dall'oscurantismo islamico. Peccato che oltre dieci anni di disperato tentativo di pacificazione, con i nostri soldati in prima linea, non siano bastati. La democrazia, purtroppo, non si esporta come una lavatrice e alla vigilia del ritiro dell'Afghanistan ci ritroviamo con l'incubo del ritorno dei talebani. Nel Paese al crocevia dell'Asia si vota, ma non basta per trasformarlo in un Cantone svizzero. Alla seconda elezione del presidente Hamid Karzai, nel 2009, in uno sperduto villaggio nella zona occidentale del Paese sotto comando italiano, un anziano capo locale ci ha dato una lezione di democrazia all'afghana. Se la sua gente fosse andata alle urne i talebani minacciavano di tagliare loro le mani o peggio. Per fortuna alla vigilia del voto è passato un generale della polizia, capo clan della zona. Per risolvere il dilemma ha preso lui le tessere di registrazione ed è andato a votare per tutto il villaggio, ovviamente a favore di Karzai.

Nel 2003 gli alleati hanno invaso l'Iraq cercando le armi di distruzione di massa, che non c'erano. Non avevano il coraggio di spiegare al mondo che volevano tirare giù Saddam Hussein, la vera arma di distruzione del suo popolo. Lui sì, con il cugino Alì il chimico, aveva bellamente gasato cinquemila curdi con soddisfazione, ma a quel tempo era ancora ben visto dagli americani per la sua guerra di logoramento all'Iran degli ayatollah.

Un sergente di New York, che ha visto crollare le Torri gemelle, è andato in guerra nel deserto iracheno con scritto sull'elmetto «11 settembre, Dio perdona, io no». Abbattuto Saddam, i soldati Usa hanno perso 4mila uomini in una sanguinosa guerriglia alimentata da cellule di Al Qaida, che prima non c'erano. Ci si aspettava che almeno il petrolio restasse saldamente in mani americane dopo il ritiro delle truppe. Ed invece si scopre che sono i cinesi, nel 2003 fermamente contrari all'intervento, a papparsi la torta più grossa dell'oro nero, la metà del milione e mezzo di barili di petrolio estratti ogni giorno in Iraq.

Impantanati in Afghanistan ci siamo dati una calmata fino alla chiamata alle armi della primavera araba sprofondata in un pericoloso inverno. Nel 2011 francesi ed americani, l'antica coppia ricompattata contro Damasco, ha preso per buona la propaganda di Al Jazeera su fosse comuni inesistenti alle porte di Tripoli e altre nefandezze non sempre vere. Una condanna a morte per il colonnello Gheddafi ed il suo regime con l'Italia che è come se si fosse bombardata da sola tenendo conto dei nostri interessi energetici in Libia. Agli americani è andata ancora peggio. A Bengasi, la «capitale» della rivolta, le frange più estreme degli anti Gheddafi hanno fatto secco l'ambasciatore Usa.

Non ci si può stupire che l'opinione pubblica occidentale sia sempre più scettica nei confronti di nuove avventure belliche. Soprattutto dopo due anni di guerra civile in Siria, dove è arduo separare con l'accetta i buoni dai cattivi. Ci scandalizziamo, giustamente, per l'orrore chimico. Nessuno, però, si è mosso per i centomila morti, compresi molti governativi, provocati al 90% dall'artiglieria e dai combattimenti casa per casa, come ha ammesso lo stesso Pentagono. Il presidente Obama, nonostante la guerra «umanitaria» stia perdendo il suo smalto, ha ordinato alla portaerei Nimitz di avvicinarsi al Mediterraneo.

Se proprio vuole bombardare Assad, per par condicio dovrebbe colpire anche gli estremisti filo Al Qaida che puntano a conquistare Damasco. In molti sono giunti dall'Iraq, dove si erano fatti le ossa ammazzando marines.

www.faustobiloslavo.eu

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