Hamas e Fatah insieme al governo. E Israele s'infuria

Netanyahu: con i terroristi al potere la trattativa di pace non ha senso. Ma Obama lavorerà con il nuovo esecutivo

Ismail Haniyeh, leader di Hamas, e Abu Mazen, erede di Arafat alla guida di Fatah
Ismail Haniyeh, leader di Hamas, e Abu Mazen, erede di Arafat alla guida di Fatah

Gerusalemme - La cravatta è una gran cosa: rende presentabili anche i peggiori terroristi. E così ieri, alla Mukata, i 17 nuovi ministri «tecnocratici» del governo Fatah-Hamas, non si distinguevano gli uni dagli altri e da qualsiasi altro politico nel mondo, tutta gente per bene. Abu Mazen appariva gioioso che fosse stata posta fine a una rottura «che tanto danno ha portato al popolo palestinese», le varie dichiarazioni ribadivano la giornata storica dopo sette anni di aspra divisione.

Abu Mazen, cercando una risposta alle preoccupazioni americane espresse da una telefonata di Kerry, ha detto che gli accordi con Israele verranno rispettati, come l'obiettivo di uno Stato nei confini del '67. Ma l'ex primo ministro di Hamas Ismail Haniyeh ha ribadito il concetto a modo suo, anche lui molto contento della raggiunta unità perché si continuerà a «perseguire la resistenza in tutte le sue forme» (ovvero, si deve intendere, con attacchi terroristici e lanci di missili da Gaza) ha anche detto che adesso le Brigate Izz ad Din al Qassam, ovvero la milizia armata di Hamas, «diventa un vero esercito».

Superato a fatica un profondo disaccordo dell'ultim'ora delle due parti sulla scelta di Abu Mazen di abolire il ministero per i prigionieri, il governo è stato varato nella prospettiva di elezioni, che dovranno aver luogo nel 2015. Le parti hanno accettato di riaccoppiarsi per motivi diversi, alla base del quale c'è tuttavia la necessità, grande molla della storia: Hamas dopo la sconfitta in Egitto dei Fratelli Musulmani di cui fa parte, è considerato un nemico dal generale Sisi dopo che l'ha abbandonato anche il solido sostegno di Assad, di cui era ospite con l'efficiente e doviziosa sede di Damasco. Il suo nesso con l'Iran è sempre attuale, ma indebolito com'è e anche minacciato al suo interno dai più svariati gruppi che scorrazzano per Gaza, deve sostenerlo con una politica attiva, che invogli gli investimenti jihadisti. Essenziale anche il fatto che da mesi i dipendenti militari e civili non vedono lo stipendio.

Tutto rendeva necessario un cambio di politica. Per Abu Mazen, la mossa di avvicinamento è un gesto che gli consente di galleggiare su un'opinione pubblica sempre più delusa dai suoi fallimenti e molto critica dei suoi rapporti con Israele e gli Usa. Hamas è forte nell'Autorità palestinese. Abu Mazen ruppe i colloqui di pace in aprile, prima dei nove mesi fissati, con l'accordo con Hamas per dimostrare con un'alzata di capo di essere un grande leader. Così lavava l'offesa che secondo lui aveva subito da Netanyahu per il rifiuto di liberare altri prigionieri dopo che Abu Mazen aveva, prima, compiuto passi unilaterali all'Onu.

Dagli Usa, a sorpresa, arriva l'annuncio che la Casa Bianca collaborerà con il nuovo governo di unità palestinese. Il segretario di Stato John Kerry ha chiamato il premier israeliano per annunciarli la decisione dell'amministrazione Obama. La Casa Bianca, ha precisato la portavoce del dipartimento di Stato Jen Psaki, continuerà a inviare aiuti ai palestinesi e osserverà da vicino la composizione e le politiche del nuovo governo. La decisione americana è stata accolta con grande delusione da Israele. «Siamo profondamente delusi dalle dichiarazioni del dipartimento di Stato - ha detto un funzionario governativo di Gerusalemme -. Si tratta di un governo sostenuto da Hamas che è un'organizzazione terroristica determinata a distruggere Israele».

Parole dure anche da parte di Netanyahu, il quale ha annunciato che finché Hamas sarà al governo non hanno senso le trattative di pace.

Il premier israeliano ha anche criticato l'Europa, che da un lato condanna il terrorismo e dall'altro parla «quasi amichevolmente» di un governo in cui siedono terroristi comprovati.

«Adesso, anche se tornassimo ai confini del '67 e smantellassimo gli insediamenti, il conflitto non potrà finire perché la sua radice risiede nella mancanza di volontà di riconoscere l'esistenza stessa di Israele».

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