Gli indiani trafitti dalle frecce avvelenate del gioco d'azzardo

Non un'altra volta, dice il capo degli Shakopee. Non un'altra volta, ripete il tam tam nelle riserve indiane di tutta l'America. Sarebbe il colmo, un ben fosco record da consegnare alla storia: quello dell'unico popolo a subire due genocidi. Il primo, quello cruento della «conquista dell'ovest», del massacro di Wounded Knee, un pezzo di memoria che ormai neanche più i film western vogliono ricordare: da ieri è all'asta il villaggio-museo che sorge a Little Big Horn, dove il generale Custer combattè l'ultima battaglia. E ora c'è una nuova minaccia, più subdola, figlia della crisi economica che rischia di inaridire la principale fonte di ricchezza dei «pellerossa»: il gioco d'azzardo.
Gli indiani che vivono nelle riserve gestiscono una vasta fetta del business dei casinò, grazie al fatto che svenarsi alla roulette è uno sport proibito in molti Stati. Le riserve, grazie alla propria autonomia politica, hanno cancellato i divieti e sul proprio territorio hanno costruito delle grandi sale da gioco, come il «Mystic lake Casino» che sorge non lontano da Minneapolis ed è patrimonio degli Shakopee Mdewakanton, diretti discendenti di una tribù Sioux che venne rinchiusa in una riserva vicino al fiume Minnesota nel 1880, che ha acquisito il proprio status di riserva federale con autonomia politica nel 1969. I vecchi qui ancora ricordano la propria vita in case mobili, senza acqua corrente, al freddo. «Oggi il tasso di disoccupazione è del 99,2 per cento - spiegò il presidente della tribù Stanley R. Crooks in una rara intervista e concedendo un raro sorriso- ma è interamente volontario». Già perché oggi gli Shakopee hanno sviluppato alla grande il business del gioco d'azzardo e macinano più milioni che frecce i loro avi. A che serve lavorare, se pensa a tutto la tribù? In parte direttamente, in parte pagando la fornitura di servizi ai vicini «wasi'chu», come i sioux chiamavano gli invasori venuti dall'Europa.
Nel 2004, a seguito di una causa di divorzio, è saltato fuori che ciascuno degli Shakopee ha un reddito, derivato dalla suddivisione degli incassi del casinò, pari a 84.000 dollari. Ma non l'anno: al mese.
Del resto, stima il New York Times, il business tribale dei casinò in tutta l'America vale 28 miliardi di dollari. Gli Shakopee gestiscono la propria fetta di questa montagna di denaro con generosità: nel 2010 hanno dato in beneficenza 28 milioni di dollari, più di due multinazionali della zona come 3M e Us Bancorp. Ma non basta a tutelarli da un disastro incombente. La crisi ha già drenato gli affari dei casinò. E ora ci si mette anche la concorrenza dei «visi pallidi»: diversi Stati Usa, affamati di risorse, stanno riconsiderando la legislazione che proibisce il gioco d'azzardo: nuovi casinò potrebbero infatti garantire un bel po' di entrate alle esangui casse di Maine, Ohio, Kansas e Pennsylvania, tutti Stati dove è stata già consentita l'apertura di grandi casinò. Ci sta pensando anche New York e in Oregon si voterà a novembre per legalizzare il gioco d'azzardo. «Per gli affari gestiti dagli indiani potrebbe essere l'inizio della fine», ha detto al New York Times Kathryn Rand, una studiosa delle politiche indiane dell'Università del North Dakota.
È la storia che torna a infierire: la gestione del denaro non è mai stata il loro punto di forza, né quando vivevano nei teepee, né ora che possono permettersi super ville. Che tra l'altro nelle riserve non ci sono. La maggior parte delle tribù non si è davvero arricchita, pochi hanno costruito grandi case: si vedono in giro macchine costose e c'è chi spende parecchio in lunghi viaggi, ultima reminiscenza del remoto nomadismo.

La fine del benessere è una minaccia seria. O chissà forse no: i soldi facili hanno portato anche a perdere ogni contatto con la realtà. Forse tornare coi piedi per terra sarà come uscire una volta per tutte dalle riserve.

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